Barchette

Domenica 11 ottobre 2020 a Trieste ha luogo la 52 edizione della Barcolana, la regata più grande del mondo. Si tratta di un evento ormai di dimensioni mastodontiche, al quale partecipano equipaggi da ogni parte del mondo. Un secolo fa ero a Trieste nella seconda domenica di ottobre e ho assistito a questo evento veramente unico ed emozionante.

Buoni propositi

La domenica dello studente fuori sede è sempre carica di buoni propositi, specialmente sotto periodo d’esame. Nella tua testa ti fai il tuo bel programmino: sveglia puntata sul presto, studio, pranzo decente, un po’ di relax postprandiale, ancora studio, cena, un po’ di ripasso oppure un film in tv e poi via in busta che il giorno dopo c’è l’esame. Alla prova dei fatti, nel novantanove per cento dei casi, succedeva che facevi tardi la sera prima – i più abbienti a cena fuori o in discoteca, i peones a bere una birra (senza patatine a corredo altrimenti si sforava il budget) in un pub oppure, più frequentemente, a cena a casa di qualcuno che cucinava bene (o cucinava e basta, tipo il Ruffo che oltre a essere un cuoco provetto, aveva il dono dell’ospitalità). A seguire, partite incandescenti a Trivial Pursuit fino alle due/tre di notte, qualche bicchiere di troppo e arrivavi a malapena a schiantarti sul letto fino alle undici della mattina dopo. Con un occhio aperto e uno chiuso dalla cispa facevi colazione (siamo noi che abbiamo inventato il brunch mica gli ammeregani) e poi, da che mondo è mondo, il pomeriggio della domenica è consacrato alla pennica, mica ti vuoi mettere a studiare. Una telefonata, un tè, una chiacchiera con la coinquilina, in un lampo arriva sera e il tuo bel programmino è bello che andato a farsi benedire.

Barcolana del 2019

La seconda domenica di ottobre del 1985 ero a Trieste ed ero sola come un cane. I miei colleghi e compagni di appartamento avrebbero sostenuto gli esami in date diverse dalle mie oppure venivano in facoltà solo per un giorno e poi se ne sarebbero ritornati alle loro case di origine, senza fermarsi tra un appello e un altro. Per quanto mi riguardava, gli esami a giugno erano andati, tutto sommato, bene: con pochi ma lusinghieri alti e diversi avvilenti e scoraggianti bassi. Mi erano rimaste poche prove da superare, tra cui l’esame di traduzione verso l’inglese, miseramente fallito per aver barrato un 7 – errore il cui peso bastava per farti tornare all’appello successivo. Quella domenica pre-esame aveva tutti i presupposti ideali per essere una giornata di studio matto e disperatissimo, come si suol dire, ma anche studio senza altro aggettivo sarebbe andato bene ugualmente. E invece, come spesso accade a ottobre, la mattinata era così tiepida, limpida e cristallina che sarebbe stato un vero delitto trascorrerla in casa, china sulle traduzioni leggermente scioviniste della Coales, infarcite di insidiosi falsi amici, consecutio temporum all’inglese e malefici “sette” da scrivere in numero e non in lettera. E poi, si sa, un cervello ben ossigenato, rende meglio. Senza frapporre indugio ho infilato la porta di casa senza una meta precisa. Allora non avevo ancora la bici – quell’upgrade sarebbe arrivato l’anno successivo, quando ero l’unica a girare per la città con due ruote senza motore. Trieste è una città solo apparentemente bike UNfriendly, perché, conoscendola a fondo, è possibile girarla senza tante salite ripide – salite ce ne sono, inutile negarlo, ma fanno parte del gioco. Troppo facile dire hai voluto la bicicletta e adesso pedala. Però è vero. Ripide o meno, ci sono un po’ ovunque. Il trucco sta nel salirne il meno possibile. Ma poi non erano le salite, il problema, casomai gli automobilisti, che ti sfrecciavano a pochi centimetri incuranti di te che pedalavi il più vicino possibile al bordo della strada per evitare di essere asfaltata a ogni partenza di semaforo. Comunque.

Il putto di Ponterosso e la sua tipica attonita espressione

Luoghi del cuore

Trieste è piena di posti belli dove andare a passeggiare, a riflettere, a stare con i propri pensieri. Quando ero in vena elegiaca, prendevo il famoso tram di Opicina che, al contrario di quanto dice la canzone, non mi è mai parso disgrazià ma anzi una grandissima figata e mi fermavo all’altezza del campo di atletica e lì passeggiavo con il golfo ai miei piedi e ancora il Carso sopra la testa. Oppure, per una corsetta, da Barcola andavo a Miramare e ritorno, un grande classico anche per le passeggiate della domenica pomeriggio. E come dice il poeta la mia città […] ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva. A parte “pensosa e schiva”, condizione quasi impossibile a vent’anni, veramente ogni angolo della città si adatta al tuo stato d’animo. Quando il mio umore era neutro, andavo a San Giusto. È uno dei luoghi che amavo e amo frequentare non solo per il posto in sé, ma per come ci si arrivava e cioè da un sacco di parti diverse. Arrivarci da San Giacomo, quella strada stranissima fatta a “sella”, poi per via Grossi e via Ragazzi del 99 è bello se ci vai con un mezzo, in auto o con la moto; da piazza Goldoni, scala dei Giganti e parco della Rimembranza ci si arriva troppo velocemente, non c’è gusto. Il mio percorso preferito è salirci da Cavana, percorrere la salita di via della Cattedrale, gettare uno sguardo sull’Orto Lapidario e poi raggiungere il piazzale dove c’è il monumento ai Caduti. È un percorso intimo, defilato, racchiuso sempre tra case e palazzetti e molto poco trafficato, si incrocia solo qualche auto che man mano che si sale diventa sempre più rara. Con il Castello alle spalle la vista spazia dalle pendici del Carso, al Golfo fino a Muggia. E così ho fatto anche quella domenica. Ho respirato a fondo e mi apprestavo a godere del momento.

Fili invisibili

Mentre assaporavo il silenzio della domenica cercando con lo sguardo il percorso della cremagliera del tram sulla collina di Scorcola, un colpo di cannone è riecheggiato nell’aria ferma. Sì, una cannonata. Ho spostato appena lo sguardo dalla collina per capire da dove venisse il botto e la bocca mi è rimasta aperta in un ohhhh di meraviglia che mi ha lasciato senza parole. Tutto il Golfo era punteggiato da una miriade di vele, di ogni dimensione, dalla più piccola deriva al veliero, che da Barcola si dirigeva verso il mare aperto. Tutte insieme, senza fretta, sembravano uno stormo di farfalline a spasso, così fitto che quasi non si scorgeva il blu del mare. Credo di essere rimasta immobile per un bel po’, ad ammirare questo spettacolo del tutto inaspettato quanto affascinante, in particolare per una terricola padana come me. Non sapevo che stavo assistendo alla 17 edizione della Barcolana, una regata-festa che allora era un evento poco più che cittadino. La leggiadra bellezza della regata mi ha commosso, rinfrancato e soprattutto mi ha fatto pensare che potevo essere una di quelle barchette, impegnata non tanto a vincere ma ad arrivare sulla linea del traguardo, possibilmente senza troppi danni. Pensavo a noi barchette colleghi di università, alle fatiche e alle umiliazioni cui venivamo sottoposti quotidianamente (perché poi, non ho mai capito il motivo di questo mind shaming feroce), a quelli che avevano sempre il vento a favore e a quelli che il vento ce l’avevano contro. A chi il mare lo ha affrontato di petto assumendosi ogni rischio e chi lo ha furbescamente cercato acque tranquille, a chi non è riuscito nemmeno a uscire in mare aperto e chi invece è andato lontano lontano. Siamo partiti tutti da quel Golfo e ci siamo dispersi in mille direzioni, e nonostante tutto, con frequenza altalenante e irregolare, a distanza di anni, ci sentiamo. Non con tutti alla stessa maniera, non sempre con la stessa frequenza. E anche così, siamo comunque legati alla stessa àncora, ad un vissuto indelebile che ci accomuna e annulla in un attimo le distanze spazio-temporali quando capita di incontrarci. Sapere di essere unita con questi fili invisibili mi trasmette un senso di grande conforto. Grazie, barchette!

(Ah poi l’esame è andato bene perché non c’erano “7” da barrare).

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