Piuttosto che perdere una tradizione è meglio bruciare un paese – Divagazioni traduttive di Saulo Bianco

Quando ero adolescente, ero drogata di telefilm “ammeregani”, come diceva Sordi. Il periodo di massima emissione in onda di queste serie era, ed è, l’estate,  quando i palinsesti televisivi diventano uguali a se stessi anno dopo anno dopo anno dopo anno… C’è chi associa mentalmente la La Signora in giallo alle ferie e l’estate meteorologicamente non parte senza le repliche annunciate dall’ inconfondibile canzoncina. Adesso guardo molto di meno la tv, tuttavia a qualsiasi ora del giorno e della notte inciampo in una serie poliziesca in cui il detective, il poliziotto, l’investigatore o eroe di turno si concede una pausa davanti a un carrettino che vende hot dog, riesce a mangiarne appena un boccone perché proprio in quel momento succede sempre qualcosa di imprevisto, Tizio butta via il panino e si lancia all’inseguimento del delinquente. (A mio avviso, per sconfiggere la delinquenza negli States sarebbe sufficiente abolire l’hot dog). La sequenza è sempre la stessa: Tizio si avvicina al Venditore, di solito un buzzicone dalla pelle olivastra, coi capelli scarruffati, mal rasato e, senza dubbio, un tantinello puzzolente (alla faccia degli stereotipi razziali), fa cenno di volere un panino e il Venditore pone la domanda fatale: “ketchup o mostarda?” Per me che sono veneta, la domanda mi lasciava sempre perplessa, da adolescente desiderosa di imparare l’inglese capivo che c’era qualcosa che non andava, una stonatura etnico-gastronomica che ben presto mi fu chiara. Sulla faccenda ho spesso discusso con Saulo Bianco, il quale ha esposto con l’usuale piacevole precisione, corredata da ricordi personali, i termini della questione.

Buona, anzi buonissima lettura!

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Parto da lontano, dalla voce di mia nonna, roca dopo tanti anni da fumatrice. Era solita ripetere questo modo di dire ogni volta che riproponeva qualcosa che aveva a che fare con il suo mondo di quasi centenaria, e soprattutto con la cena della vigilia di Natale. Sì, perché in quell’occasione tornava a casa a qualche ora del giorno con fare carbonaro e con un involto, o “scartòsso” come diceva lei, di mascarpone e uno di mostarda, quella vicentina, piccante piccante. Quando ancora mascarpone, mostarda, marmellate varie, tonno e sgombro venivano venduti sfusi su fogli di carta oleata, rigorosamente al bancone del droghiere. La mostarda era piccantissima, una sorta di composta di cotogne dentro la quale occhieggiava variopinta la frutta candita, boccone destinato solo agli adulti. A noi ragazzini un assaggio di mascarpone mescolato con un’idea di mostarda, e già ci prudevano naso e lingua, ci lacrimavano gli occhi, ma ci sentivamo già grandi, anche se l’attenzione era altrove, galvanizzata dall’ansia dell’attesa del mattino dopo, per vedere cosa Babbo Natale avesse mai lasciato sotto l’albero.

Fu durante il liceo, dalle magnifiche vetrine della famosa gastronomia Vignato, in via Roma, che scoprii che di mostarde ce n’erano per tutti i gusti. Passavo davanti a quel negozio tutti i giorni, con una fame bastarda, diretto alla fermata dove prendevo la corriera per tornare a casa, verso l’una… Lì conobbi la mostarda cremonese e mantovana, quella piemontese e quella bolognese, quella di Voghera, per non dimenticare la siciliana e la calabrese. Negli anni ebbi modo di assaggiarle più o meno tutte e devo dire che mi sono piaciute. Ma quella vicentina conserva tutto il sapore della mia infanzia, e di nonna. Il gusto di una tradizione.

Anni dopo, quando ormai potevo sfruttare il diritto di adulto di mangiare il “candito piccante piccante”, mi ritrovai a discorrere di questa usanza con un’amica, la quale mesi più tardi mi invitò a casa sua per la cena della vigilia. La serata fu splendida, il cibo squisito, la compagnia impareggiabile, e più o meno al momento di servire formaggi e dessert, la mia ospite, sorridente, portò in tavola un piccolo vassoio su cui erano state disposte, ad arte, due piccole montagne, una di candido mascarpone e una di mostarda fiammeggiante. I miei racconti avevano aggiunto un anello alla storia, avevano creato una continuità. Ne fui commosso.

Col tempo appresi altri vocaboli che gravitavano attorno al “grappolo semantico” associato a “mostarda”: in Francia, la moutarde de Dijon, e durante le ore di storia, il “gas mostarda”. Fu mangiando un hot dog da qualche parte in giro per il mondo, non ricordo se in Inghilterra o negli Stati Uniti, che la parola “mustard” si associò indissolubilmente alla mia conoscenza attiva del vocabolo. Mustard, che in italiano diventa senza ombra di dubbio senape. La stessa senape con cui ho sempre accompagnato i wurstel nei vari rifugi di montagna e qualche volta il bollito, per insaporirlo.

Si potrà pensare che tutto questo non c’entri nulla con le divagazioni traduttive. Ebbene no, mia intenzione era creare un po’ di suspense, srotolare una storia che più o meno descriva il mio rapporto con la “mostarda”. È stato oggi, leggendo un libro preso a prestito perché non avevo voglia di acquistarlo, un libercolo edito da una blasonata casa editrice, che sono inciampato di nuovo sulla parola “mostarda”. Citerò il peccato, non il peccatore, né la sua fonte. La scena si svolge in una piazza di Boston.

Era, come diceva Mamma, giusto il posto dove finire ammazzati. In ultimo, dopo aver lappato e leccato ancora altre pozze sul marciapiede, trovammo del cibo in grandi bidoni azzurri sul retro di Joe&Nemo- hot dog, cetrioli in salamoia, panini dolci, ketchup, mostarda. (…)

Lo so, non sta bene sparare sul pianista. È sotto gli occhi di tutti il fatto che l’industria editoriale sforna titoli su titoli, molti dei quali tradotti. La fretta è nemica del bene, direbbe nonna. Il traduttore deve quindi far fronte a tempi editoriali frenetici, rispettare le consegne; per i tagli dei costi, la terza revisione di bozze è andata a farsi friggere (lo si nota anche nelle pubblicazioni redatte in italiano), mentre le poche che ancora si fanno sono a dir poco all’acqua di rose. Quindi quel povero cristo di traduttore o traduttrice non ha tempo di rileggersi perché deve fare i conti con i costi, anche se ora il suo nome è riuscito a guadagnarsi un posticino sotto quello del titolo/autore, anche se molte volte ciò non corrisponde a un adeguato riconoscimento pecuniario.

Di certo non sono esente da errori. Se fossi dotato di maggiore autoironia racconterei alcuni aneddoti personali che a tutt’oggi mi fanno arrossire. Quando verrà il momento giusto, forse lo farò. Ma ormai viviamo nell’era wikipedia, i dizionari sono tutti online, all’Ikea per una manciata di monetine si possono acquistare tutti gli hot dog che si vuole con la salsa giusta.

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Sta di fatto che in tutta la mia carriera di buongustaio, alla vigilia di Natale ho sempre mangiato mascarpone e mostarda, mentre gli hot dog e i wurstel li ho sempre gustati con abbondante senape. Sono i dettagli che fanno la differenza tra un appassionato di cibo e tradizioni e un consumatore distratto. E spero di aver salvato un paese dalle fiamme.

PS: per gli “expatriates” che soffrono di nostalgia come me:

http://corrieredelveneto.corriere.it/padova/notizie/cronaca/2009/28-settembre-2009/dopo-84-anni-storia-vignato-chiude-bottega-1601816614206.shtml

2 risposte a "Piuttosto che perdere una tradizione è meglio bruciare un paese – Divagazioni traduttive di Saulo Bianco"

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