La legge di gravità è uguale per tutti (almeno quella)

All’inizio del mese mi è capitato di vedere un servizio del notiziario più pettegolo e inutile della tv italiana, TG2 Costume e Società. Parlava della minigonna che, un tempo appannaggio esclusivo di topette ventenni, adesso, nel terzo millennio – pare – sia stata sdoganata a favore anche delle cinquantenni. Il servizio mostra un’esponente di questa fascia d’età, con la faccia tirata come un tamburo masai, che premette che le cinquantenni di adesso “non giocano più a carte, ma fanno yoga, fanno dance, vanno in palestra”. Giocare a carte? ma chi cacchio frequenta, questa qui, pensavo. Non paga, ella dispensa consigli e accortezze come se fossero rivelazioni vediche: la gonna mai più di dieci centimetri sopra il ginocchio, calze coprenti, monocolore negli abiti. E che cacchio di consigli sono? Se mi devo scoprire le gambe per poi inguainarle in calze a 40 denari, che senso ha? Vabbè comunque non era questo che volevo dire. Quello che volevo dire è che questo servizio assolutamente inutile mi ha fatto venire in mente una conversazione, di tanti anni fa, con un mio carissimo amico, il quale sosteneva che la minigonna dopo i trenta stona, fa cafone, un po’ come “un negro con il Rolex” (virgolettato mio preso da un racconto di Niccolò Ammaniti). Ai tempi della conversazione, circa quindici anni fa, avevo reagito a questa affermazione con impeto arietino di orgoglio sessista femminile e avevo mitragliato il povero amico con una raffica di contumelie, la più riferibile e blanda delle quali era “porco maschio schifoso”. Poi, riflettendoci su, aveva ragione lui. Ma per motivi storici, non per altro. La minigonna è nata negli anni ’60, nel mitico decennio tanto caro a Gianni Minà, a partire dal quale nulla è rimasto come prima, a cominciare dalla moda. In quei tempi erano le ventenni a sbandierare le micro gonne,  per loro e non per le babbione sessantenni Mary Quant ha lavorato di forbice e ha ridotto ai minimi termini il capo di vestiario più rappresentativo di noi donne. Per cui la minigonna è sinonimo di gioventù, di rottura di schemi, di libertà ed è per questo che il mini indumento mal si abbina ad un corpo che, per quanto tonico e flessuoso, racconta di più di quello che dovrebbe. Nel porgere scuse tardive ma sentite al mio amico, ho pensato che, in generale, dal punto di vista estetico, agli uomini si perdona quasi tutto, mentre a noi donne, al primo segno di sciatteria siamo bollate per la vita. E per anni, da quella conversazione, ho cercato quella situazione, quel dettaglio che, in un uomo, a livello puramente estetico, mi procurasse lo stesso senso di inadeguatezza, la stessa stonatura, il medesimo spiazzamento di una cinquantenne in minigonna. Ma che ci vuoi fare, ripeto,  sull’uomo gli oltraggiosi attacchi dell’età sortiscono un effetto diverso che su di noi. I capelli brizzolati su di loro aggiungono fascino mentre un solo capello grigio su una donna la fa sembrare una strega; un po’ di peso su un fisico maschile (un po’, però, mi raccomando) gli conferisce autorità e sicurezza; su di noi un etto in più crea inestetici rotolini nei punti meno occultabili del corpo; gli occhiali, croce e delizia di legioni di presbiti, di qualsiasi sesso, contribuiscono a fare dell’uomo un intellettuale e della donna una “signorina cecata”. Insomma, come la metti, agli uomini sta bene quasi tutto. Stavo per perdere ogni speranza di trovare la stonatura estetica per l’uomo “non più giovane”, quando, complice una giornata di primavera anticipata,  finalmente, l’ho trovata. O almeno credo.

Il mio personale effetto di “negro col Rolex” (sì lo so, è una frase razzista, maleducata e politicamente scorretta,  ma se leggeste il contesto da cui è tratta, cioè il racconto di Niccolò Ammaniti Fa un po’ male, capireste lo spirito) è l’ultracinquentenne maschio dentro lo spider. Questo tipo di auto è legato, nell’immaginario collettivo femminile, a giovani che sfrecciano sicuri e alteri, assolutamente incuranti dell’aria che scompiglia i capelli e sferza vertebre cervicali e spalle senza pietà. Un riferimento visivo potrebbe essere la scena d’apertura di American Gigolo, (stupenda colonna sonora, sentite Blondie come ci da dentro con Call Me) oppure James Bond inseguito dai cattivi di turno. Ecco, con queste immagini in mente, fascinose e conturbanti, ho assistito alla seguente scena.

Facendo jogging sul lungomare, in fondo al rettifilo scorgo la sagoma inconfondibile di una BMW Z3 nera, lo spider “con le branchie”, un’auto cazzutissima e aggressivissima. E anche bellissima, ovvio. Erano i primi di marzo, ma la giornata così tiepida invitava a togliere la capote e a godersi il tiepido solicello. All’approssimarsi del mezzo, mi aspettavo al volante, come da copione, un bel figo trentenne, di uno di questi dall’aria strafottente e un po’ stronza, lampadato e griffato anche nelle mutande. Invece, a velocità di lumaca, si avvicina una capoccetta bianca ricoperta da quattro peli in croce che l’aria scombina in un canuto vortice tricotico, occhiali da sole in celluloide che hanno visto tempi migliori e sguardo fisso sulla linea di mezzeria. A peggiorare le cose, l’auto è provvista di windstopper, una specie di paratia frangivento montata dietro i sedili e che dovrebbe riparare i passeggeri dell’auto dall’eccessiva esposizione al vento. Un po’ come installare il water con la tavoletta riscaldata. Roba da pensionati. Ma non è finita qui. Dopo avermi superato, il vetusto pilota accosta e si ferma per andare a prendere il giornale. E qui ho avuto un momento di grande rivalsa, crudele finché volete, ma chi se ne frega. La stessa forza di gravità che a noi donne fa cascare le tette, facendole assomigliare a un calzino con dentro una moneta da un euro, oppure che fa appendere la pelle del sottobraccio in quell’inestetica forma conosciuta come “rece del can” (ovvero “orecchie da cocker”), teneva inchiodato il driver al sedile della biposto come se una mano invisibile lo schiacciasse verso il basso. Il pilota era rimasto intrappolato nel sedile e si dimenava tristemente come una tartaruga sul dorso per potersi disincagliare e uscire dall’impasse. Si aggrappava a qualsiasi cosa che gli potesse servire da leva, ma nella Z3 tutto è più basso di te, conducente, che sei seduto in una specie di fossa. Arrampicarsi sugli specchi sarebbe stato più agevole. Il giornalaio nel frattempo, mosso a pietà, era uscito dal suo gabbiotto e gli era corso in aiuto, sollevando una specie di stoccafisso indurito dal freddo e dalla brezza marzolina. Altro che Sean Connery, altro che Richard Gere!

Giustizia è fatta, dunque? mah, non saprei. Invece di cercare palliativi per indossare indumenti microscopici o guidare auto col sedile ad altezza asfalto, la vera giustizia sarebbe che ci rendessimo conto che la giovinezza non ce la ridà il microabito o la decappottabile. Ma nell’era dell’immagine, dell’apparire, tutto è lecito, anche se si risulta ridicoli indossando una minigonna o guidando una fuoriserie a dieci all’ora per evitare il “colpo d’aria”.

 

 

8 risposte a "La legge di gravità è uguale per tutti (almeno quella)"

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  1. Dovrebbero proibire la vendita di spider superati i quaranta. Ma si è spostata la percezione del decadimento, questo è il problema, per non parlare di quei sessantenni con i capelli (pochi) tinti nero pece, come avere un gatto bruciato in testa. Le donne sanno essere di cattivo gusto ma gli uomini, quando ci provano, spaccano.
    Gustosissimo flash: come esserci! 🙂

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  2. Se è vero che per i maschi il pelo è un’ossessione, è vero anche che certi riporti, da soli, rimettono in pari anni di ingiustizie>>:)

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