Dorando Pietri e la linguistica applicata

Una scheggia di memoria universitaria, presente nell’antologia SSLMIT 3.0 assieme a tanti altri ricordi. Nonostante siano trascorsi diversi anni, solo dopo averlo messo su carta, sono riuscita a esorcizzare quel giorno tragicomico.

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Famoso per NON aver vinto

Il 24 luglio 1908 il maratoneta carpigiano Dorando Pietri tagliò per primo il filo di lana alla maratona delle Olimpiadi di Londra. Poiché negli ultimi metri fu sorretto dai giudici, in quanto stremato dalla fatica e dal caldo insolito per quelle latitudini, fu squalificato e perse la medaglia d’oro. Tuttavia, la sua impresa fece ben presto il giro del mondo e sir Arthur Conan Doyle, allora inviato del Daily Mail, si fece promotore di una sottoscrizione per compensare Pietri della perdita della medaglia. La regina Alexandra, consorte di Edoardo VII, lo premiò con una coppa dorata e il compositore Irving Berlin gli dedicò una canzone. Paradossalmente, Dorando Pietri divenne famoso per non aver vinto.

Il pomeriggio del 24 luglio 1986, mi sentivo come Dorando Pietri. Ma solo un po’. A Trieste faceva un caldo africano e nei corridoi sporchi, squallidi e desolanti della Scuola non c’era quasi nessuno. Dopo una maratona di esami infinita, con risultati alterni, facevo parte di una manciata di studenti sudaticci e fibrillati, in attesa di sostenere l’esame di Linguistica Generale e Applicata, con il “Terribile”, a quei tempi anche Preside di Facoltà.Nel piano di studi ufficiale il corso aveva quel nome articolato e serioso; nel mio cursus studiorum personale lo avevo trasformato in “Tontologia e Scienze Confuse” tanto erano incomprensibili e avulse da ogni contesto le lezioni del suddetto professore. Lezioni che, in realtà, non ho mai frequentato, su precisa indicazione dei miei fantastici tutor personali del primo biennio, che mi consigliarono di conservare le energie per altri corsi, argomentando il consiglio con le seguenti motivazioni:

  1. le lezioni di linguistica erano il lunedì mattina dalle 8.30 alle 10.30 (traduzione: per seguirle, dovevo rientrare a Trieste la domenica sera anziché il lunedì mattina);
  2. più spesso che no il docente si presentava alle 10.10, faceva scoreggiare il cervello in banda larga e tanti saluti (sottotitolo: se voglio perdere tempo, conviene andare per osmize che mi diverto di più);
  3. l’esame verteva su tutt’altro che i temi trattati in classe (domanda: perché tutto ciò? risposta: siamo nati per soffrire, una delle frasi favorite del Terribile).

Dalla costa dei barbari alla Costa d’Avorio e ritorno

Adesso, a ripensarci su, un po’ mi dispiace di aver perso le lezioni del Terribile, di cui mi raggiungeva l’eco tramite i compagni di corso che invece frequentavano più o meno assiduamente. Erano lezioni in cui il Terribile (stra)parlava di cose assurde, che però preparavano egregiamente a interminabili e infuocate partite di Trivial Pursuit, gioco di società allora molto in voga, in tempi in cui internet era fantascienza, la tv satellitare roba da Star Trek e la Wii se la potevano permettere solo i futuri astronauti. Venni così a sapere, relata refero, che il professore era un assiduo frequentatore della Costa D’Avorio e nello specifico della tribù dei bawlè, con i quali intratteneva fitti scambi culturali. A questo proposito, mi corre l’obbligo di riportare la vignetta di Marcello Pennarello, molto poco politically correct ma senza dubbio esilarante.

A ognuno la sua croce
A ognuno la sua croce © Marcello Pennarello

Senza tema di smentita, credo che il professore in questione detenga, ex-aequo con la versione inglese di Polentina di collodiana memoria, la palma di recordman sia come produttore assoluto di aneddoti che come oggetto degli stessi. Dal noto colloquio con una esaminanda:

Terribile: Signorina, quando ha fatto l’amore per l’ultima volta? 
Studentessa: Ieri sera, professore.
Terribile: Bene, 30 e lode e può andare!

di cui sospetto la matrice di leggenda metropolitana, al campanaccio da mucca frisona con cui era solito chiamare le esaminande al grido di “venite, belle muccarelle”, dalle incoraggianti e calorose parole di benvenuto il primo giorno di lezione: “Siete tanti e vi spiaccicherete come mosche sul vetro” alle sue divagazioni sulla trasposizione in musica del Circolo Pickwick da parte di Claude Debussy, tutto contribuiva a renderlo un personaggio sui generis. Durante il mio primo anno di frequenza ci fu un’ondata di freddo veramente siberiano – tanto che la laguna di Venezia ghiacciò – e il Terribile si presentava a lezione con i “rampini” agganciati sotto alle scarpe, strumenti a metà tra ramponi da ghiaccio e claquette da ballerino, che gli permettevano di non spaccarsi l’osso del collo lungo le ripide salite gelate della città. Lo facevano sembrare, nell’atrio liscio e piastrellato della scuola, un goffo tiptapeur, a metà tra Fred Astaire e Kobe Bryant. Una visione devastante. Con questo e moltissimo altro, il Terribile aveva creato attorno a sé un alone di mito folle che ha terrorizzato generazioni di studenti.

Per una congiunzione astrale particolamente favorevole, grazie alla Luna nella settima casa e Giove allineato con Marte, o forse, più prosaicamente, perché non era riuscito a prenotare le ferie per tempo, il Terribile quell’anno decise di concedere graziosamente un post-appello alla fine di luglio. Con la fregola che avevamo tutti di finire gli esami per tempo per sostenere gli esami di diploma e continuare a massacrarci gli zebedei nel fantasmagorico secondo biennio, non ci pareva vero di avere un’occasione in più per tentare l’esame. Tentare è il verbo più giusto, perché sostenere l’esame con il Terribile era l’equivalente della roulette russa. Potevi sapere il Lyons a memoria, essere diventata parente di Canepari a furia di ripetere i fonemi della lingua piccarda arcaica, ma se LUI ti chiedeva il sistema vocalico del bambarà (che non esiste in nessuna dispensa), potevi tranquillamente alzarti e andare a Barcola a prendere il sole. Anche la sottoscritta, nonostante una maratona di esami veramente sfiancante, decise di dare l’esame, terrorizzata come tutti, di non riuscire a finire gli esami in tempo e di non potermi iscrivere al secondo sfidante biennio. Cosa che, peraltro, si verificò puntualmente, ma per altri motivi.

18 o 30 per me pari son

Quel 24 luglio ero ancora ignara del mio destino: ero un fascio di nervi sudati e pensavo solo a superare l’esame. Eravamo una quindicina scarsa e io ero l’ultima.  Prima di me, c’era stata la solita e prevedibile strage degli innocenti: tutti bocciati, tranne l’imperturbabile e flemmatico Mauro ** che prese nientemeno che trenta. Quando uscì dalla stanzetta, lo guardammo come se fosse stato una visione paradisiaca, anticipato da un coro di cherubini, pioggia di petali di rose e profumo di violetta. Chi lo voleva toccare, chi gli voleva strappare un pezzo della maglietta come reliquia, insomma scene di delirio mistico-studentesco. Mauro, con la sua aria sorniona e il suo meraviglioso senso dell’understatement, da vero gentleman qual è, glissò elegantemente sul risultato e se ne andò sollevato e felice a casa.

Venuto il mio turno, il Terribile mi guardò e chiese la mia provenienza. “Questa la so!” pensai tutta soddisfatta e risposi a tono. Evidentemente non costituivo nulla di foneticamente esotico per il Terribile, tanto che subito dopo lasciò seccato la stanzetta senza salutare. Dopo una giornata di tensione nervosa alle stelle, di ansia e di condizionamenti psicologici negativi, feci un esame veramente schifoso ma l’assistente del Terribile, con due laghi di sudore sotto le ascelle e con gli occhi a palla, con il suo inconfondibile accento abruzzese, mi propose un diciotto. Senza pensarci due volte, dissi di sì. Diciotto equivale a dire “togliti dai piedi prima che ci ripensi e ti bocci” ma considerate le circostanze, la sufficienza tirata per i capelli mi sembrava bella come un trenta.

All’uscita dell’auletta, non c’era nessuno. La mia gloria, al contrario di quella di Dorando Pietri, durò l’espace d’un matin (o più precisamente, d’un aprés midi) ma come l’atleta carpigiano ero arrivata sfiancata, disorientata e completamente in bambola dopo decine di esami, settimane di preparazione, ore di traduzioni, chilate di esercizi sul Thomson and Martinet (che vorrei tanto vedere in faccia, così, giusto esprimere loro il mio odio), prove di vocalizzazione sul quadrilatero fonetico e stronzate etnolinguistiche in ordine sparso. Infatti, il giorno dopo già non c’era traccia del post-appello, se non sul libretto universitario. Per un attimo fui famosa (assieme a Mauro) per aver superato l’esame, seppure per un pelo. Un diciotto non si può certo definire un risultato brillante, una vittoria di cui andare orgogliosi, ma in una giornata nefasta come quella, in terra caecorum, monoculus rex.

Fino a non molto tempo fa, il 24 luglio era una giornata in cui mi concedevo un piccolo lusso. Un aperitivo con gli amici, una pizza, un’intera giornata al mare, un po’ di shopping fatuo: una qualche minuscola gratificazione per festeggiare una evento così fondante come non aver più a che fare, almeno direttamente, con LUI. Se il Terribile sospettasse quali danni psicologici ha generato in legioni di studenti, beh… a parte che sono certa che lo sappia molto bene, credo non gliene fregherebbe più di tanto, impegnato come immagino sia nella contemplazione del suo ombelico etnolinguistico.

Contributi etimologici di un certo livello

Qualche tempo dopo l’esame, sfogliavo a caso il Devoto-Oli, passatempo antesignano di quello che oggi tutti più o meno facciamo in rete, e cioè saltare da un argomento all’altro con una logica, come dire, un po’ fuzzy. Il dizionario è democratico, elenca asetticamente e rigorosamente tutti i termini che i parlanti usano e quindi siamo noi utilizzatori che conferiamo dignità o meno alle parole, non il compilatore. Inciampai in un termine corredato da una nota etimologica firmata dal Terribile. Da quando l’ho letta, se mi capita di pensare a lui (eventualità remotissima, visto che la linguistica generale e anche applicata non ha molto utilizzo in azienda), la mente non va ai bawlè o al sistema intervocalico dello swahili, ma bensì al professore del:

Queste sì, che sono soddisfazioni. Indipendentemente dalla linguistica, sia generale che applicata (a cosa, poi?) uno dei miei sogni del cassetto è correre una maratona. E onorare la memoria di Dorando Pietri.


Edit 2023: da qualche tempo a questa parte la parola “maratona” mi fa salire la carogna più nera nonché il male assoluto. Mi accontento di correre. Qualsiasi distanza, ma correre.

3 risposte a "Dorando Pietri e la linguistica applicata"

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  1. Ma sai che parlavamo di lui con Sabrina poco fa? Un grande esempio e una bella storia. Perseverare sempre! I sogni vanno accarezzati e coltivati! Verremo a fare il tifo per te

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