Lavorare stanca (un’azienda di ultras)

Non lavorare è brutto, bruttissimo. È una sensazione che ho provato diverse volte, ma anche fare un lavoro dimmmerda non è poi tutto questo spasso. Anche questa è una condizione che ho sperimentato, più raramente della prima – per fortuna, ma fa sempre schifo lo stesso. Pochissimi di noi hanno la fortuna di fare il lavoro per cui si sono preparati, o per il quale si sentono portati, o nel quale riescono a dare il meglio di sé. La maggior parte di noi lavora per portare a casa uno stipendio e con questo, cercare di camparci. Per quanto mi riguarda, solo in un paio di occasioni ho trovato impieghi così piacevoli da dimenticare che erano, appunto lavori, per il resto sono stati strumenti per pagare le bollette, l’affitto e cazzi e mazzi connessi. A mettere sopra il carico a coppe su una situazione lavorativa come dire, non ottimale, è l’ambiente lavorativo. Non mi sto riferendo al contesto prevalentemente maschile – ci sono abituata, dopo anni e anni di frequentazione di metalmeccanici puri – quanto al fatto che è la prima volta che lavoro completamente circondata da una falange di ultras di una di queste squadrette che si barcamenano tra la serie B e la serie A (più la prima che la seconda, di solito).

In questa azienda, la metafora calcistica è la modalità corrente di comunicazione, di comportamento e azione. «Siamo nella serie A delle aziende del nostro settore, bisogna fare gioco di squadra, non dobbiamo mai farci trovare in fuorigioco dal Cliente» e puttanate simili. Naturalmente l’esempio viene dato dal Boss, che si autodefinisce ultras vero. L’ultras, secondo la mitologia corrente, è uno che non scende a compromessi, senza atteggiamenti conciliatori. Il suo mondo è senza sfumature di grigio, non ammette debolezze di sorta: in altre parole, è un duro (con altre parole ancora, una bella testa di cazzo). Tutto questo in realtà non traspare, perché, a vederlo il Boss è più simile a un peluche della Trudy che a uno che va ad aprire la testa ai poliziotti con una spranga; è una persona amabilissima, comprensiva e altruista come poche altre, un gentiluomo con tutti, anche e soprattutto con chi non se lo merita. Dentro di sé si sente Attila, l’immagine che gli altri vedono da fuori è Topo Gigio. Incredibile come l’idea che si ha di sé non coincida con la forma esteriore che gli altri vedono. Attila e Topo Gigio hanno poco in comune, ma tant’è. Però lo stile dell’ultras prospera e fa proseliti. A cascata, ovviamente, vengono dietro i dipendenti, i quali sono stati accuratamente selezionati in base a una serie di requisiti molto specifici: maschio con pollice opponibile, diploma di scuola superiore (con esonero obbligatorio di lettura di qualsiasi libro che non sia di testo), corso di sopravvivenza in mare, comune di nascita in provincia, (non si accettano residenti nella provincia limitrofa,  con la quale esiste una ruggine decennale – sai che novità) e giocatore di calcio. Questa ultima caratteristica, passata di bocca in bocca, si è diffusa parecchio tra i candidati, tanto che, in tutti curricula che arrivano in azienda, negli hobby c’è sempre “calcio”, con la spiegazione che giocando a calcio, si sviluppa lo spirito di squadra e l’abitudine a lavorare in team e per obiettivi. Lo sapevate? Fior di corsi aziendali sul team building non valgono quanto una partitella scapoli-ammogliati. Va da sé che un maschio con queste caratteristiche è senza dubbio un tifoso della squadra cittadina. Le gesta eroiche dell’undici cittadino sono commentate il lunedì mattina nell’ufficio del Boss, dove tutti si riuniscono in cerchio attorno alla scrivania su cui è spiegato il giornale locale aperto alla pagina dello sport. Ingenuamente pensavo, memore delle belle abitudini instillate da anni di multinazionali, che ogni lunedì mattina, dalle 8 alle 9 ci fosse la riunione settimanale di programmazione del lavoro. Ma poi, sedendo alla mia scrivania che è a fianco di quella del Boss, sentivo conversazioni del tipo: “il mister ha preferito la tattica di conservazione del risultato” oppure “anche la curva degli avversari si è inchinata al nostro gioco-spettacolo” oppure “il pressing dell’avversario non ce l’ha fatta a penetrare la nostra difesa” e amenità simili. E poi giù chiacchiere da bar e se-fossi-io-l’allenatore, con interminabile sequela di scenari ipotetici.

Da martedì a sabato invece si commentano le scelte del Mister, che attualmente è un incrocio tra il grande capo Estiquaatsi e un bradipo. Un uomo dalla vitalità simile a quella di una salma putrefatta: è nome illustre del firmamento calcistico, che adesso allena una squadretta di provincia di piccolo cabotaggio. Quando viene nominato, tutti abbassano la voce in deferente rispetto e assumono un’espressione beata da orgasmo calcistico. Quando si viene a sapere che il Mister cenerà nel tal posto, si scatena una frenesia presenzialista da groupie per riuscire a parlarci e per dargli consigli sulla formazione, come se ne avesse bisogno.

L’area ristoro dell’azienda, detta impropriamente “scaldavivande”, è un tabernacolo della tifoseria più becera: sciarpe, gagliardetti, calendari, articoli di giornale, foto del Boss e degli operatori con i giocatori, foto con le vecchie glorie, illustrazioni dell’animale-simbolo della squadra che zompa felice da tutte le parti. Qui si scatenano le discussioni più accanite, i commenti del dopo-partita più accesi, le organizzazioni delle trasferte più importanti. È una succursale del bar Sport in versione aziendale, con la benedizione e l’incoraggiamento del Boss. La mia presenza in saletta ristoro è del tutto ininfluente, sono tollerata solo per il fatto che sono una delle poche femmine in grado di saper spiegare il fuorigioco (quando i giocatori sono negli spogliatoi), sapere cos’è un terzino fluidificante (una dose minima di uno sciroppo per la tosse) e di conoscere la poetica e tragica storia di Garrincha, l’angelo dalle gambe storte, il calciatore più famoso di Pelé in Brasile, (ma questo loro non lo hanno mai nemmeno sentito nominare, abbacinati dalle gesta delle scamorze che hanno in squadra) ma ovviamente non ho diritto di parola e nemmeno lo voglio, mi basta sentirli parlare che è già uno spasso così, con questo uso horror/splatter di congiuntivi, (“se potrei essere l’allenatore, farebbi così”) di consecutio temporum che ci vuole la Delorian di “Ritorno al futuro” per stare dietro alla successione verbale e abbondanza di neologismi al cui confronto D’Annunzio era un dilettante. Ma qui si rischia di andare fuori tema, magari la prossima volta racconto di quando per descrivere la scarsa flessibilità della grande multinazionale, questa venne definita “elefantizia”.

Circa un mese prima della scadenza del mio contratto, il Boss mi chiama fuori dall’ufficio: quando mi invita per passeggiare nello squallido piazzale, macchiato di olio e ingombro di attrezzature, ci sono sempre notizie importanti. Camminare all’aria aperta è il suo modo per rilassarsi e per comunicare con completa tranquillità le sue idee. Subito mi sono cominciate a passare per la mente diverse opzioni: rinnovo di contratto, cambio di mansione, aumento di stipendio. Ma anche l’esatto contrario: fine del contratto, licenziamento in tronco, fustigazione delle terga in pubblica piazza. Ero tesa come una corda di violino.

«Senti ho una notizia importantissima per te» esordisce il Boss, invitandomi a seguirlo nella passeggiata.

Cazzo, ci siamo, ci siamo! Il rinnovo del contratto, in predicato da mesi, magari si concretizza, dai che forse ce la facciamo.

«Però mi devi promettere che non lo dici a nessuno» rinforza lui.

Cazzo cazzo, vuoi vedere che il contratto non solo viene rinnovato ma è a tempo indeterminato.

«Sai, è una faccenda delicata, non vorrei che si sapesse in giro.»

Cazzo cazzo cazzo, meglio ancora. Ma un velo di dubbio aveva iniziato ad offuscare la prospettiva. Perché tanto mistero? Alla fine, si tratta di lavoro, mica di fare la rapina del secolo. Qualcosa non quadra.

«Ho studiato bene la situazione» continua il Boss con voce un po’ bassa e guardandosi attorno con fare circospetto «e dato che sono certo delle informazioni che ho» prosegue, abbassando ancora la voce «pensavo che ti faceva piacere sapere che sabato prossimo pensavo di scommettere sulla sconfitta della mia squadra sula squadra della tua città. Per me significa un grosso tradimento, ma tecnicamente siamo in difficoltà, la lista degli infortunati è lunga, la panchina è corta, invece la “vostra” (come se fosse mia, la squadra) difesa è…»

Non lo ascoltavo più. Lo sforzo sovrumano che ho fatto per non mandarlo a cagare in mezzo al piazzale probabilmente non si è visto. La tentazione è stata forte, ma sono riuscita a dissimulare bene, credo, visto che non si è accorto di niente.

Per farla breve, mi ha fatto scommettere per lui, un tradimento che non si laverebbe nemmeno col sangue: se lo venissero a sapere gli ultras della mitica curva nord, verrebbe appeso per gli zebedei al punto più alto del ponte pedonale.

Tutti i salmi finiscono in gloria. Al punto Snai la quota per il giuda di provincia non è trenta denari ma 14,50 Eur, la partita è finita con un pareggio, la squadra è andata in serie A dopo vent’anni e io, da qualche tempo, non mi stanco più di lavorare.

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