Per Pasqua, un racconto. Anzi, molti racconti brevi, brevissimi, con argomento la Grande Guerra. Saulo Bianco, già ospitato su queste pagine, mescola Storia e finzione e ci regala alcuni flash che illuminano, per un attimo, quella immane tragedia che fu la Prima Guerra Mondiale. Buona lettura!
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Il cielo era terso, quella mattina del 19 marzo 1917. Nel silenzio dell’aspettativa, l’aria cristallina fu solcata dal rombo del nuovo prototipo dell’aereo SVA. Quello fu il giorno del suo roboante e futuristico battesimo, l’epifania di ciò che sarebbe stato il volo di D’Annunzio su Vienna nel 1918. All’orizzonte il sole brillava, freddo.
http://www.finn.it/regia/html/grande_guerra.htm
Doveva succedere, prima o poi. Me lo sentivo. La guerra è guerra. Siamo stati intercettati dagli U-Boot tedeschi. Nonostante tutto quanto ci circonda sia di una bellezza incredibile, sono pronto all’irreparabile. Il mare, lo specchio in cui si riflette la tormentosa anima dell’uomo, diceva il grande poeta. Dopo l’ennesimo viaggio come scorta ai convogli che attraversano il Mediterraneo, non lontano dalla Sardegna, ci hanno silurato. Non ho tempo per pensare. Ma penso. Non ci posso fare nulla. Guardo i miei compagni mentre mi muovo meccanicamente secondo le procedure. Siamo topi in fuga. L’orrore e il fragore ci circondano, la paura ci raspa le gole. La corazzata Danton colerà a picco, e io non so se riuscirò a mettermi in salvo.
http://it.wikipedia.org/wiki/Classe_Danton
Era esausto, quella mattina, il soldato semplice Mocerino. Aveva passato una notte interminabile. Le fiale di morfina da tempo scarseggiavano nell’ospedale da campo. Vampate di angoscia avevano agitato i suoi giovani pensieri. Era stanco di soffrire, ma per tutta la notte non aveva smesso un attimo di vedere il profilo di casa, la sagoma ondulata delle sue terre, disegnati da un pennello misterioso contro una volta celeste buia come la sua disperazione. Nemmeno una stella in quella notte senza fine. Alle prime luci dell’alba provò una stanchezza infinita. Aveva sonno. Voleva riposare un po’. Socchiuse gli occhi spossato, mentre in lontananza intuiva le sfumature rosate dell’alba di quell’anonimo 19 marzo 1917.
“Mocerino Tommaso di Alfonso e Ambrosio Maria, soldato nel 60° Reggimento Fanteria, nato a Somma Vesuviana il 17 novembre 1897 e morto il 19 marzo 1917 in seguito a ferite di scheggia di bombarde. Celibe.”
http://www.comune.sommavesuviana.na.it/evidenzacaduti08.htm
Da tempo ormai non si trova più nulla. Nemmeno i campi e gli orti sembrano avere più voglia di dare una mano. I miei figli hanno fame. Tanta fame. Che altro avrei dovuto fare? Ieri, 19 marzo 1917, giorno di San Giuseppe, l’esasperazione ha mosso le mie azioni, e solo per aver tentato di sfamarli rubando il pane ora mi vedo costretta a fuggire e a nascondermi. I Carabinieri stanno setacciando tutte le vie di Maida. Li sento. Corre voce che siano successi disordini simili anche a Nicastro e Chiaravalle. Sono gli uomini, quelli che vanno al fronte e fanno la guerra, e muoiono lasciandoci sole… Ma siamo noi donne a sostenerne tutto il peso.
http://www.cimeetrincee.it/maida.htm
Il 19 marzo 1917 Fortunata Veronica, mia nonna materna, aveva compiuto 19 anni da poco più di un mese. Maria, mia nonna paterna, ne avrebbe compiuti 18 un mese prima della dodicesima battaglia dell’Isonzo, la battaglia di Caporetto (24 ottobre 1917). Di lì a 11 anni circa, giorno più giorno meno, sarebbe nato mio padre. Nel 1968 sarebbe stata istituita la festa del papà e nasceva uno dei miei fratelli.
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La guerra che poi sarebbe stata battezzata come Grande aveva già meritato l’aggettivo, chiamando da Soreni ben tre leve di maschi alla trincea del Piave, e non bastavano ancora. Dal fronte, insieme ai feriti gravi congedati, arrivavano notizie dell’eroismo della Brigata Sassari, e Bonaria ventenne aveva già visto abbastanza mondo da sapere che la parola «eroe» era il maschile singolare della parola «vedove».
Michela Murgia, Accabadora, Einaudi, 2009
Non si meravigliò che la giovinetta conoscesse il suo nome perché la città allora era stata abbandonata da quasi tutte le famiglie più ricche e i pochi abbienti vi risaltavano. (…)
Tuttavia, nel tardo pomeriggio quando, abbandonato l’ufficio, il vecchio, per risparmiarsi l’attesa inerte in casa, andò a passeggiare lungamente alla riva ed al molo, vi fu nel suo petto un lieve sobbollimento morale, che non passò senza lasciar traccia di sé nella sua anima. (…)
Il tramonto estivo era chiaro e pallido. Il mare gonfio, stanco e immobile, sembrava scolorito in confronto del cielo ancora lucente. Si vedevano chiaramente i profili delle montagne digradanti verso la pianura friulana. Si intravedeva anche l’Hermada e si sentiva vibrare l’aria scossa dai colpi incessanti del cannone.
Ogni manifestazione di guerra cui il vecchio assisteva, gli faceva ricordare con uno stringimento di cuore ch’egli in seguito alla guerra guadagnava tanto denaro. A lui dalla guerra risultava la ricchezza e l’abiezione.
Si sentiva il brontolìo del cannone ed il buon vecchio si domandava: – Perché non hanno ancora inventato il modo di ammazzarsi senza fare tanto chiasso? – Non era tanto lontano quel giorno in cui il suono del combattimento aveva destato in lui un sentimento generoso. Ma la malattia gli toglieva quel residuo di spirito sociale che la vecchiaia non era riuscita a distruggere in lui.
In quei giorni ci fu Caporetto. Le prime notizie del disastro egli le ebbe dal suo medico venuto a trovarlo per piangere in compagnia del vecchio amico, che egli (povero medico!) credeva capace di sentire come lui. Invece il vecchio non vide in quell’evento altro che un beneficio: la guerra si allontanava da Trieste e perciò da lui.
La novella del buon vecchio e della bella fanciulla, in: Italo Svevo, L’assassinio di via Belpoggio, a cura di Esperia Ghezzi, G. B. Palumbo & C. Editore, gennaio 2000 (1930, pubblicato postumo)
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Il campanello sulla porta dello studio tintinnò con forza, come se fosse appena entrato un furioso colpo di bora. Stavo sistemando le attrezzature come facevo di solito ogni giorno, quello che non ero riuscito a ultimare la sera prima. Avevo aperto il negozio da poco. Il profumo del surrogato di caffè preparato per colazione da mia moglie indugiava ancora in bocca, mentre nelle orecchie risuonava il vocìo allegro dei figli mentre mi salutano sulla porta con una spensieratezza dettata solo dalla tenera età.
Quella mattina del 19 marzo 1917 si prospettava una giornata di lavoro come tante altre. Soldati in convalescenza o in licenza che posano con fierezza davanti agli obiettivi per mamme o fidanzate. Qualche ricca e stanca signora.
Mi riebbi da quel flusso sonnacchioso di pensieri. Lo scampanellio stentava a dissiparsi nell’aria. Sollevai lo sguardo allarmato. Davanti a me, dall’altra parte del bancone, una donna, alta. Il mento leggermente sollevato rispetto alla direzione dello sguardo tradiva un’austera eleganza interiore.
«Potreste farmi una foto, subito, per cortesia?» chiese trafelata quasi implorando. In quella voce avvertii una tensione terribile.
Annuii abbozzando un sorriso. La invitai ad accomodarsi davanti all’obiettivo, l’aiutai a mettersi in posa, feci un paio di scatti. Ogni mio tentativo per farle scaturire un sorriso, almeno la parvenza di un sorriso, fu vano.
La donna obbediva alle mie parole, quasi impaziente, come se il tempo stringesse. La pregai di attendere in negozio mentre riponevo le lastre. Tornai da lei. Stavo per scribacchiare una ricevuta per il ritiro quando lei, dopo aver lanciato un’occhiata alla data, appoggiò le mani sul bordo del bancone, quasi aggrappandosi con forza. Le nocche a poco a poco sbiancarono.
«Non potreste fare prima, il prima possibile, per favore?» chiese con un filo di voce. «È per mio figlio» aggiunse quasi per scusarsi. «Non ho più sue notizie da molto» concluse lasciandosi sfuggire un soffio, come se la speranza l’abbandonasse all’improvviso.
Osservai quei due grandi occhi grigi, stanchi e profondi. La donna sostenne il mio sguardo, a lungo, e mi parve che le labbra si rilassassero per la frazione di un secondo.
«Tornate oggi pomeriggio, signora» mi sorpresi a rispondere dopo aver riposto l’orologio nel taschino. Avevo tutta la mattinata a disposizione e senza intoppi o clienti importuni sarei riuscito a soddisfare quell’insolita e, mi sovvenne allora, straziante richiesta.
Lavorai di gran lena per ore. Chiusi il negozio per pranzo e quando riaprii, rinfrancato nel corpo e nello spirito per aver trascorso in allegria quella manciata di ore, la ritrovai davanti alla porta. Alta, austera, immobile, come poche ore prima. In mano teneva una busta sul cui retro aveva già vergato l’indirizzo con una scrittura minuta e perfetta. Ritirò e pagò la fotografia, e dopo avere chiesto il permesso, in disparte scrisse un messaggio senza esitare con una stilografica comparsa come d’incanto dalla borsetta, quasi come se in quelle poche ore avesse mandato a memoria l’intero testo. Le porsi il rullo di carta assorbente. Mi ringraziò con un cenno del capo. Con gesto veloce fece scomparire la fotografia nella busta. Ebbi come l’impressione di leggere “Zona di guerra”…
La donna ringraziò di nuovo e uscì, veloce com’era arrivata. Rimasi a lungo con lo sguardo fisso oltre la vetrina, a guardare le poche persone che con passo stanco passeggiavano lungo via dell’Acquedotto.

19.III.17
Quando nel ’14 ti ho mandato la mia fotografia *caro Carletto*, sei da lì a poco ritornato a casa da Pola. Potrebbe anche adesso ripetersi la stessa cosa. Io lo spero e tanto lo desidero. Ti sia quindi la presente un talismano, oltre che un ricordo della mamma
Purtroppo WP fa un po’ quello che vuole
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