Il sapore delle parole

Anche questo è un raccontino inviato a uno dei tanto concorsetti del piffero ai quali partecipavo e a cui non prendo più parte, visti i brillanti risultati. Che sia un racconto di fantasia è facile a dirsi, in quanto reggo bene l’ alcol come i nativi americani o gli aborigeni australiani: mi basta un bicchiere per andare sotto al tavolo. Visto che siamo in tempo di vendemmia, il racconto mi sembra in sintonia con la stagione.

Alla salute!

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Fino a ventiquattro anni ero un’astemia nominale, vale a dire che non bevevo vino per distrazione e noncuranza, non perché non mi piacesse. Era un argomento che non mi interessava, semplicemente. Per i piatti che preparavo alle cene con gli amici, lasciavo agli invitati l’incombenza di abbinare il vino. E non sempre erano matrimoni felici. Anche da analfabeta enologica, intuivo che c’era qualcosa che non andava, una specie di incomprensione non detta tra la parte solida e la parte liquida del pranzo.

Poi ho iniziato a lavorare e il caso ha voluto che i primi incarichi fossero traduzioni delle retroetichette per bottiglie di case vinicole della mia zona. È già difficile esprimere un profumo, un gusto, una sensazione con le parole della propria lingua, figuriamoci poi a trasportare le descrizioni barocche e immaginifiche, che gli autori non lesinano, con la severa precisione tedesca o con la tagliente semplicità inglese. Ma tant’è, tradurre è un compito ingrato: si viene notati solo se la traduzione fa schifo e invece più la traduzione è buona, meno il traduttore risalta. Come dicono Fruttero e Lucentini, gli [al traduttore] si chiede di considerare suo massimo trionfo che il lettore neppure si accorga di lui. È un lavoto sporco, ma qualcuno lo deve pur fare.

Foto di Matelda Codagnone
Foto di Matelda Codagnone

Però, traduci oggi e traduci domani, ero così incuriosita che un bel momento ho deciso di passare dalla teoria alla pratica. Ho preso il coraggio e il fegato a due mani e con l’aiuto di qualcuno che ne sapeva di più ho iniziato ad avvicinarmi ad un mondo nuovo, fatto di bouquet, di retrogusti, di tannicità. Erano parole che diventavano sapori, aggettivi che diventavano profumi. Traducevo con cognizione di causa. E tornando indietro con la memoria alle mie cene, pensavo a quanti sapori erano stati poco valorizzati per colpa di un vino che non “legava” col piatto. Da allora è partita una rincorsa al recupero degli abbinamenti che non si è più fermata.

Dopo centinaia di retroetichette tradotte – e quasi altrettante bevute – non mi vanto di essere diventata un’esperta né di lingue straniere né tantomeno di vini, ma posso dire di aver fatto passi da gigante nell’educazione linguistica e sensoriale che mi porta discrete soddisfazioni. Traduco con una certa facilità e da anni mi sono liberata dell’ansia di non sapere abbinare il vino giusto a ogni portata. Certo, a volte davanti a espressioni come “profumo complesso volgente all’etereo” oppure “di fiori leggermente appassiti, viola e rosa canina in bocciolo in particolare”, “remoti sentori di cuoio vecchio e fresia appassita” mi tremano i polsi, non tanto per il loro significato letterale, ma per la difficoltà di farlo accettare, per esempio,  ad un inglese che ha sempre bevuto stout o ale.

Come potrà mai essere, al naso del perfido albionico, un “profumo etereo”? Ci penso un po’ su, raccolgo le idee, apro il dizionario e poi mi concentro. Prima però penso a mio nonno, curvo sotto il peso degli anni e del bottiglione di “nero” che andava a prendere in càneva, la cantina, il sancta sanctorum della casa di campagna. Nonno Bepi era uno che curava con le sue mani il vino, letteralmente dalla culla del vigneto alla tomba della botte di rovere e sentenziava, dopo aver sentito gli sproloqui degli esperti enogastronomi: “El vin ga da saver da vin, e basta.” Eh già, il vino deve avere il sapore del vino, altrimenti è un’altra cosa.

Con buona pace dei verbosi e ridondanti compilatori di retroetichette.

6 risposte a "Il sapore delle parole"

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  1. Nemmeno io reggo molto l’alcol e questo mi ha impedito di approfondire le mie conoscenze enologiche. Aggiungasi che mi rifiuto di spendere cifre astronomiche per una bottiglia di vino e mi accontento di quello medio che si può trovare in un market e che utilizzo più per cucinare che per accompagnare i piatti. Capisco però che la valutazione di un vino sia una questione di sfumature. In genere mi piace un vino che ricordi almeno un po’ l’uva da cui dovrebbe essere nato. Parlo del sapore dell’uva appena colta, naturalmente, il cui gusto particolare pochi conoscono, soprattutto se sono abituati a cibarsi di quei grappoli insapori delle due o tre qualità di uva da tavola che si trovano nei supermarket. Ritengo di essere uno dei fortunati che ha potuto assaggiare l’uva direttamente dalle viti o dai pergolati di quell’ettaro di terra che avevamo un tempo, quand’ero molto giovane. Anche nell’uva (in quella da vino) si trovano sfumature e retrogusti, quelli che poi ci ingegniamo a ritrovare nel vino. Quanto agli abbinamenti, capita di usare un vino che distrugge il sapore del piatto che si sta consumando, ma è questione di sensibilità. Tanti non se ne accorgono proprio

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  2. Dear Lonza,
    While your perspective remains earthy and bold, your comments are often elegant and refined. You have a nose for clarity and your insights are buttery and bright, with just a hint of complexity.
    I am oaky. How are you? Now I should finish,
    W

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  3. Come al solito riesci a coinvolgermi e ho perfino sentito ilretrogusto al sapore di cuio antico. Non riesci a deludermi nemmeno se ti ci metti d’impegno. Grazie Lorenza

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