Tempo fa, per far capire ad un collega chi fosse la ragazza che, in ufficio, aveva ricevuto un fascio di rose rosse, fatto eccezionale in sé e, a maggior ragione, epocale in un’azienda di metalmeccanici puri, persi forse mezz’ora a descrivere fisicamente com’era la fanciulla oggetto di cotanto romanticismo. Ad ogni dettaglio fisico enunciato (occhi castani, capelli lisci lunghi, figura snella, ecc.) che riduceva il numero delle papabili sempre più, il tizio offriva la tipica espressione di mucca-che guarda-il-treno. Esasperata perché non riusciva a focalizzare la persona, alla fine gli ho detto “la tizia che HA la Honda Civic.” Fu come trovare la combinazione di una cassaforte, il viso del tizio si aprì in uno sguardo vivo e finalmente disse “Ho capito chi è”. Alla buon’ora. Racconto questo simpatico “nanetto” perché gli uomini considerano un oggetto come l’auto parte integrante delle caratteristiche fisiche di una persona, al pari del colore dei capelli e della statura. E anche il computo degli anni viene spesso scandito dalla progressione dei modelli di auto che si sono succeduti nell’esistenza. Fateci caso alla prossima conversazione e vedrete se non vengono dette frasi come: “ah, è passato così tanto tempo, ricordo che avevo ancora la Tipo/Mercedes/Renault” ecc. L’esistenza o il passato di una persona sono certificati necessariamente dal dettaglio automobilistico, come a sancire che se sei automunito hai una visibilità, una vita, un trascorso. Se questo presupposto fosse vero al cento per cento (e per fortuna non lo è), la sottoscritta, attualmente, non esisterebbe. Perché l’auto non ce l’ho (più). Stanca di fare la felicità dell’elettrauto sotto casa, al quale mi rivolgevo con regolarità per cambiare la batteria dell’auto che si scaricava in continuazione, ho deciso che dell’auto posso fare a meno. In effetti il mio rapporto con l’automobile è sempre stato intermittente e poco sentito. Ho preso la patente in ritardo rispetto ai miei contemporanei, che a diciotto anni e un minuto erano già davanti alla Scuola Guida per fare l’esame, perché studiavo fuori sede in una città che ha un servizio pubblico capillare ed efficiente, perché poi mi bastava il mitico Ciao blu per scorrazzare in giro, per le lunghe distanze c’era il treno e poi perché la scatola di lamiera non ha mai avuto chissà quale fascino su di me. D’altra parte, sono un po’ giustificata. La prima auto che ho guidato e su cui ho esercitato una singhiozzante scuola guida con mia sorella è stata la Fiat 127 Rustica, che forse, ma dico forse, qualcuno si ricorda per le griglie davanti ai fanali anteriori e posteriori che le conferivano un che di esotico, effetto prontamente smontato dal colore, un incongruo color caffellatte opaco (oggi si direbbe “matt”, nel senso che bisogna essere matti per comprare una macchina del genere). Spartanissima, rumorosissima, aveva però una capacità di bagagliaio da monovolume, ed era stata sicuramente quella la caratteristica per cui era stata acquistata, non certo per la sua linea filante come una scatola di scarpe. Per quanto essenziale e bruttarella, la Rustica ci fu rubata (incredibile!) e fu rimpiazzata da una Fiat Uno blu mare, nata difettosa in tutto e per tutto – non funzionava niente, nemmeno la chiusura centralizzata – che ho guidato solo per portarla da un meccanico ad un altro. Poi col primo lavoro stabile mi comprai una Fiat Uno CS di seconda mano, un modello che veniva fabbricato per il mercato brasiliano (!) e che avevo l’indubbio vantaggio di costare poco. E basta. Quello era la sua unica attrattiva, visto che consumava come un aereo di linea. Dopo di lei ho chiuso con la Fiat e ho acquistato la mia prima – e per il momento, unica – auto nuova, una Opel Agila verde che mi ha servito in maniera eccellente, non ha mai avuto un guasto in tredici anni e che ho venduto l’anno scorso. Insomma, non c’è di che vantarsi, come collezionista di auto sono scarsa. E comunque, alle auto non è legato nessun ricordo particolare, nessun momento indimenticabile.

Delle vicissitudine con le due ruote motorizzate ho ampiamente pontificato qui e non ritorno sull’argomento, mentre le bici che ho avuto me le ricordo tutte. Ho imparato ad andare in bici sull’aia della casa dei nonni con una bicicletta verde sulla quale avevano fatto scuola, prima di me, i miei cugini e chissà quanti altri bambini. L’ho rivista quando sono andata a casa dei miei, riposta in cantina. È così piccola che sembra un soprammobile, così bella che mi sono intenerita. Dopo essere passata di mano un mano è toccata a me e in sella mi sembrava di poter arrivare ovunque. Mi ricordo l’ebbrezza di andare per la prima volta senza rotelle e nel momento esatto in cui mi accorsi che ero in equilibrio su due ruote, caddi lunga distesa nella polvere tra le galline stupite che mi guardavano come se fossi precipitata da Marte. Da quella alle Graziella che giravano per casa il passo fu breve, c’era un turn over di bici da paura, tutta roba da battaglia per andare a scuola o girare per il paesello perché la bici bella, la Torpado color amaranto di mamma era off limits. Come era intoccabile la bici da corsa di mio padre, azzurrina e ai miei occhi, il non plus ultra dell’ingegneria ciclistica. Alle medie scassavo una bici ogni sei mesi, ci salivamo in due, chi pedalava e stava dietro in piedi con lo sguardo fisso sull’orizzonte lontano come un generale che controlla i movimenti delle truppe prima della battaglia. Con quelle io e l’amica del cuore bighellonavamo in giro, io spingevo sui pedali e lei troneggiava sopra (già da piccola il mio destino era quello del gregario, non del leader). Con la bella stagione andavo alle scuole superiori in bici lungo l’argine del Bacchiglione. Percorrere in totale solitudine quei dieci chilometri scarsi dopo un anno scolastico di autobus affollati, di afrori adolescenziali e di schiacciamenti più o meno casuali delle parti basse, mi sembrava una liberazione. All’università usavo una “no logo” che qualcuno aveva abbandonato nella rastrelliera davanti al negozio di famiglia, color grigio metallizzato, abbastanza leggera e performante, di sicuro pesava poco perché me la portavo in camera al quarto piano senza ascensore. Mi piaceva tenerla in casa, la bici, a farmi compagnia la sera mentre studiavo. Con quella andavo fino al castello di Miramare, la domenica pomeriggio, ad ammirare splendidi tramonti infuocati e a riflettere su quali esami affrontare o a consolarmi di quelli che non avevo superato. Una volta fui addirittura abbordata da un ciclista, che in perfetto dialetto triestino, esordì “Signorina, la pedala ‘sai ben, dove xe che la va?” Rimasi un po’ sorpresa – cosa vuol dire pedalare “bene”? – ma quello andava così veloce che era ormai un puntino lontano quando riuscii ad articolare qualche risposta. Dopo ci fu la prima MTB, che pesava come un cancello in ferro battuto ma che aveva le ruote tassellate per andare su e giù per i Colli Euganei. Che senso di libertà estrema salire e scendere per le vie tortuose, fresche di robinie e di castagni e piombare in pianura dove mi aspettava un gelato o un cappuccino, a seconda della stagione. Nel frattempo la Torpado amaranto era stata sostituita da una bici con freni a bacchetta, nera ed elegante, che uso ancora quando vado a trovare mamma, una bici austera da signora, mentre qui, in questa regione forte e gentile, ho una Cinelli Bootleg, con la quale potrei anche fare il giro del mondo, per quanto è comoda, robusta e affidabile. Non solo. Da quando la uso come mezzo di trasporto principale, la tasca ne ha risentito positivamente. E di questi tempi non è poco. Innumerevoli sono i vantaggi di andare in bici, ne potrei elencare a pacchi, anzi senza che mi sforzo, c’è qualcuno che lo ha già fatto qui. A volte basterebbe un po’ di organizzazione e un po’ meno di pigrizia e sarebbe possibile, non dico eliminare del tutto, ma ridurre l’uso dell’auto. E quando piove? A meno che non si aprano le cateratte del cielo, un paio di pantaloni impermeabili e una buona giacca a vento risolvono il 99% del problema come spiega questo articolo di Bike Italia.
Sogno una società bici-centrica sul modello olandese o danese (anche la regina va in bici!) e non auto-dipendente, una società in cui per far capire chi è tizio o caio, bisogna dire: “è quello che ha la Cinelli, che ha la Bianchi, che ha Colnago”. Magari un giorno ci arriveremo.
ho sempre amato la bici. Per le persone della mia generazione era un simbolo di libertà. Nulla dà più gioia di pedalare in mezzo al verde. Brava Lorenza!
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E continui ad amarla, mi pare… 🙂
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solo grazie … in attesa che arrivi la mia NUOVA yaris ibrida: un po’ di green mi fa sentire un po’ meglio!
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