Wanted: taglia 44 (chi l’ha detto che andare per saldi è divertente)

Per la maggior parte delle donne – e anche degli uomini – il periodo dei saldi è una specie di orgia consumistica, la sagra dell’effimero giustificata dalle seguenti affermazioni: “ma quando mi ricapita, io che non trovo mai il colore/la taglia/il numero” oppure “non mi ci potrei nemmeno avvicinare in altri momenti”, oppure ancora “sono mesi che gli faccio la posta, adesso lo prendo al 20% in meno” e via un rosario di scuse più o meno plausibili per sperperare denaro senza troppi sensi di colpa. Per la sottoscritta, acquistare vestiti, in linea di massima, è una incommensurabile rottura di balle. Non sono una fashion victim, vesto sportivo, anzi sportivissimo, non seguo le mode e non me ne frega una cippa delle tendenze modaiole che un cartello di “creativi” (qualsiasi cosa voglia dire) misogini, sadici e al 99% omosessuali (teoria esposta da Elio & Le Storie Tese) impone ogni sei mesi al profanum vulgus femminile. Sì, perché gli stilisti (o sedicenti tali, vorrei proprio vedere quanti di questi sono veramente in grado di tenere in mano un ago, tagliare una pezza di stoffa e fare un abito su misura) odiano le donne. Ci odiano con il livore dell’invidioso, del vorrei-ma-non-posso, del kapò da passerella che permette solo alle super-magre, cioè agli scheletri ambulanti, di vestirsi. Altrimenti non si spiega perché, stante la popolazione femminile di corporatura variabile, questi creativi (“vieni avanti, creativo”) hanno abolito la taglia più diffusa, cioè la 44. Che, casualmente, è anche la mia. Ma andiamo con ordine. wanted Anche per una nonsumista (crasi tra “non” e “consumista”) come la sottoscritta ogni tanto arriva il momento di rinnovare, almeno in parte, il guardaroba. Già si presenta il primo problema. In questa città i negozi cambiano con la stessa velocità con cui Totti sbaglia i congiuntivi, per cui ogni volta che trovo un negozio che ha lo stile che mi piace, invariabilmente dopo 10 mesi, massimo un anno, non c’è più. E questo rende ancora più difficile tutto. Ne resiste uno dove trovo, anzi trovavo, capi di mio gusto e della mia taglia. Mi faccio dare la 44 di un paio di pantaloni che ho visto in vetrina e la commessa mi porge una cosa che già a occhio sembra piccola. Mi rassicura che “vestono comodo”. Bene! Entro nel camerino e la gamba del pantalone non sale oltre il ginocchio. Il cavallo è così lontano dal punto di arrivo che mi viene da ridere. Per non piangere. Controllo l’etichetta, casomai si fosse sbagliata, e invece no. Chiedo se ha la 46 e il suo volto si atteggia a questa precisa espressione: Medusa_Caravaggio con sguardo beffardo e trionfante, la seccardona socchiude gli occhi e scuote la testa in un diniego senza appello. E qui bisogna aprire una parentesi: la commessa. La commessa è, con pochissime eccezioni, una stronza. Tanto per cominciare, veste sempre meno della 40, il che la autorizza – non si sa per quale diritto – a guardare con schifo appena dissimulato chiunque veste al di sopra di quella taglia. Le clienti che vestono di meno sono incenerite da sguardi invidiosi al vetriolo. Anche se il negozio è vuoto e lei non sta facendo nulla, risponde con fastidio a ogni richiesta del/della cliente, a volte senza nemmeno parlare, solo con un cenno della testa. Dopo aver subìto per anni questo atteggiamento, mi sono convinta che fare la commessa è, almeno in Italia, considerato un lavoro di ripiego, una specie di punizione, altrimenti non si spiega la gran quantità di gente improvvisata, maleducata, incompetente e odiosa che si trova nei negozi. Provate ad andare all’estero e vedrete la differenza. Ogni lavoro, dallo spazzino al fisico nucleare, ha la sua dignità e richiede professionalità, conoscenza e, nello specifico, capacità di avere a che fare col pubblico. Se sei una muflona, dèdicati al data entry. Pro bono pacis sorvolo sui commessi. Meritano una trattazione a parte. Fallito miseramente il primo tentativo, senza tanta convinzione entro in un negozio di un rinomato “stilista”, chissà che non trovi – pia illusione – quello che cerco (un paio di pantaloni, mica un abito di Capucci). Capisco subito di aver fatto una cazzata: nel reparto femminile i pantaloni sono belli allineati negli scaffali e divisi per modello e vestibilità: slim, skinny, ultra skinny. Che in altre parole significa: magro, pelle-e-ossa, scheletro. Niente regular, custom o qualche parola che richiami il concetto di “normale”. Sono certa che le topette che si vestono da questa griffe, l’inglese non lo sanno e si ostinano a voler entrare nei jeans ultra skinny anche se pesano 130 chili. Basta camminare per strada e osservare la gente per averne conferma. A questo punto sono già esaurite le mie esigue riserve di pazienza ma il personal shopper mi istiga all’acquisto. Seconda parentesi: il maschio che accompagna la moglie/fidanzata/compagna/sorella/mamma a fare compere. Il suo passo ha la stessa elasticità e slancio di quello di un condannato alla sedia elettrica, dentro ai negozi annaspa tra cumuli di abiti senza dare alcun fattivo aiuto, perché non sa distinguere un paio di leggings da un paio di anfibi, oppure aspetta fuori dalla porta e inganna l’attesa fumando o taffolando col cellulare, intento a comporre la formazione migliore per il fantacalcio oppure a vagliare le varie marche di pneumatici per l’inverno. Il più interattivo si offre di portare i sacchetti con il bottino del saccheggio da saldi, ma non di più. Non ce la fa proprio. Arriva il momento di fare un giretto da quella marca spagnola tutta colorata e scombinata, ma anche qui niente da fare. Anche le spagnole sono diventate tutte anoressiche? La taglia 44 non esiste. Cioè c’è, ma veste come una 38. La 50 forse potrebbe vestire come la 44, ma è considerata taglia “conformata”. L’ultima carta me la gioco nel negozio che è sinonimo di jeans. Senza troppa convinzione entro e una simpatica e gentile ragazza (a occhio una 44) mi chiede cosa cerco. Nel giro di dieci minuti trovo tutto quello che mi serve, cintura inclusa. Quasi non ci credo. Ma che fatica! Tutto negativo in hac lacrimarum valle dello shopping in saldo? Non direi. A parte che la giornata ha offerto spunti per studi di sociologia applicata, non sarei uscita viva – e rivestita di nuovo – senza il mio personal shopper. Probabilmente è arrivato da Marte, perché, al contrario dell’accompagnatore medio di cui sopra, istiga la moglie a usare la carta di credito, le cerca – e soprattutto le trova – capi adatti al suo stile e al suo modo di essere, chiede senza sosta alle commesse di trovare la taglia più grande o più piccola, scova piccoli tesori di accessori tra montagne di roba anonima e ha una resistenza fisica allo shopping equiparabile a quella di un partecipante alla Marathon des Sables. Senza di lui il mio guardaroba sarebbe una foglia di fico.

6 risposte a "Wanted: taglia 44 (chi l’ha detto che andare per saldi è divertente)"

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  1. … di solito, per essere “precisini”, il miglior personal shopper e’ UNA personal AMICA! Si quella che non ascolta le tue suppliche ( basta, basta,basta:ho male ai piedi alle spalle alla testa) “ravana” nei cestoni, insegue e cattura le commesse (quelle MENO stronze certo) e ti trova alla fine ciò che cercavi ( e anche quello che non avresti MAI cercato). Donne: se non ora quando?

    P.S.: nevica a tutto spiano e i magazzini di materiale tecnico sono pieni di maschi che comprano gusci tartaruga per la schiena, piumini che si accartocciano come un fazzoletto usato e … Pantaloni da sci con airbag a soli 950 euri! Ma quando gli ricapita?

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  2. Puoi prestarlo per qualche ora il tuo personal shopper a povere donne disperate? Riesci a scrivere su qualsiasi argomento in modo simpatico, colto e ci fai partecipare all’evento. Sei grande

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