Fermata straordinaria

Il primo giovedì di maggio a Cocullo (AQ) si svolge la festa dei Serpari, in onore di San Domenico. Si tratta di un evento veramente unico nel suo genere, ricco di simbologie e molto sentito dalla popolazione del paese e non solo. Qualche anno fa sono andata a Cocullo col treno e ho assistito a tutto il cerimoniale della festa: i devoti che entrano in chiesa a ritroso, massima espressione del suddito che non deve guardare il Signore direttamente, ho tirato coi denti la cordicella della campana dentro la Chiesa, per allontanare il mal di denti e tanti altri gesti devozionali. Il momento più emozionante è l’uscita della statua di San Domenico dalla chiesa, portata a spalla dai devoti. Nel sagrato della chiesa viene abbassata a livello del suolo e i serpari la adornano con i serpenti (innocui) che hanno raccolto nei mesi precedenti. La ressa è incredibile e come per incanto la statua prende vita. Così adornata, viene poi portata in processione per le vie del paese. Durante il viaggio di ritorno, in treno, per far passare il tempo, mi era venuta in mente questa storia d’amore, odio e serpenti.

Fermata straordinaria 

Venanzio arrivò a Fiumicino in serata col volo diretto Buenos Aires-Roma. Nonostante gli anni non risentiva della stanchezza del viaggio né dello scombussolamento da jet-lag. Mancava dall’Italia da quarantacinque anni, da quando, appena diciottenne, era emigrato con la famiglia in Argentina. Come tanti altri del suo paese, aveva lasciato Cocullo per andare a cercare fortuna “alla Merica”, perché quella manciata di case aggrappate all’Appennino non aveva risorse bastevoli per tutti. Dispersi per il mondo, chi in Canada, chi in America, chi in Australia, tutti sognano di fare ritorno al paese. Lui invece no. Il motivo del suo esilio volontario era legato alle ragioni del cuore, se di ragione si può parlare.

A Fiumicino lo accolse Domenico, il più piccolo dei cinque fratelli, quello che, con impegno e bravura, aveva studiato. Professore di scienze naturali, aveva una specializzazione con un nome difficile, erpetologia. Chissà, forse tutte le uscite alla ricerca di cervoni, biacchi, saettoni e bisce per ornare la statua di San Domenico avevano lasciato un’impronta nella mente del piccolo di casa che poi si era trasformata in interesse, curiosità, studio e infine in professione. I due fratelli si abbracciarono e si scambiarono poche parole: la gente di montagna è parsimoniosa di chiacchiere.

«Sei proprio sicuro?» gli chiese Domenico.

«Aspetto questa occasione da quarantacinque anni» fu la risposta asciutta del fratello.

Sì, pensò Domenico, era proprio deciso.

La mattina seguente, primo giovedì di maggio, Domenico accompagnò Venanzio alla stazione Tiburtina. Gli mise in mano un sacchetto di tela verde e gli augurò buona fortuna. Venanzio lo ringraziò con un mezzo sorriso e salì sull’interregionale Roma-Pescara delle 7.54 che per quel giorno solamente effettuava una fermata straordinaria a Cocullo, in occasione della Festa dei Serpari.

Sparsi per il mondo, i cocullesi ritornavano sempre per la festa del loro santo patrono, il monaco benedettino che visse tra Lazio, Abruzzo e Campania, venerato per la sua semplicità, per il suo potere taumaturgico, per la sua capacità di ammansire lupi e serpi, i simboli del male per antonomasia. In quel giorno, i “serpari” adornano la statua del santo con i rettili che hanno cercato nei mesi precedenti. Il simbolo del peccato assume in questa circostanza un valore benefico, simboleggia l’equilibrio tra le forze della Natura, tra il bene e il male. Tutti tornano al paese per la festa e Venanzio era sicuro che avrebbe incontrato Antonio. E anche Ersilia, cardine di tutto, chiave di volta delle loro vite.

Mentre il treno avanzava lento tra le montagne appena ricoperte di un sottile strato di erba verde, picchiettate qua e là dai punti gialli dei cespugli di ginestre, la mente di Venanzio andava indietro nel tempo. Il procedere lento e cadenzato del treno gli permetteva anche di osservare le sue montagne, così ostili e così care al tempo stesso. Domenico si era offerto di accompagnarlo con l’auto, ma Venanzio preferì il treno. Non avrebbe avuto il tempo di assorbire il trauma delle brutte periferie, delle zone industriali, dei centri commerciali, delle villette a schiera color salmone tutte uguali. Col treno l’impatto era minore, più morbido. Col treno aveva lasciato il paese e col treno voleva farci ritorno. Alla sua destra il viadotto dell’autostrada era una ferita di cemento che squarciava il fianco della montagna, tributo da pagare al progresso. Pale eoliche sull’orizzonte, un tempo netto e lineare, del monte Prezza: altro pedaggio per un mondo che ha sempre fame di energia. Papaveri ai primi di maggio, segno che un equilibrio millenario era stato compromesso.

San Domenico a Cocullo © Lonza65
San Domenico a Cocullo © Lonza65

Nello scompartimento chiassoso di scolaresche eccitate, semplici fedeli e turisti stranieri, Venanzio ricordava le innumerevoli serate con Antonio ed Ersilia a chiacchierare fitto fitto sotto il torrione del paese. Erano inseparabili, loro tre: i maschi innamorati di Ersilia e dei suoi profondi occhi neri, tuttavia anche legati tra di loro da un’amicizia virile. Il confine tra amicizia e rivalità in amore era labile e intrigante per tutti loro. Lei era attratta da Venanzio per la sua indole riservata e discreta, ma era anche sedotta dall’irresistibile guasconeria e sfrontatezza di Antonio.

Quella sera di fine giugno di tanti anni prima, però, erano senza parole. In un periodo in cui i giovani non avevano voce in capitolo, le famiglie dei due ragazzi avevano deciso di emigrare in Argentina. Ersilia avrebbe raggiunto presto gli zii in Belgio e il loro piccolo mondo si sarebbe disgregato. I maschi però avevano deciso di far ritorno in Europa quanto prima, per raggiungerla, Belgio, Germania, ovunque, anche in capo al mondo, se fosse stato necessario.  Ma Antonio non rispettò i patti, il giorno della partenza non si presentò.  Nel caos e nella confusione dell’imbarco la sua assenza non venne giustificata. Venanzio non seppe niente di lui per diversi mesi, finché un paesano, arrivato in America da poco, gli riferì che Antonio era andato in Belgio e lì, libero da rivali, aveva sposato Ersilia. Venanzio non disse nulla. Divenne ancora più taciturno e solitario, dedito solamente al suo lavoro. Nonostante si sentisse ormai argentino, non volle mai farsi una famiglia sua.

«Signore, ha lo zainetto aperto» lo avvertì il ragazzo seduto di fronte. Venanzio lo ringraziò con un sorriso ma non chiuse la zip. Lo zaino doveva rimanere così, quella piccola apertura avrebbe dato un senso ad un viaggio durato più di quarant’anni. «Siamo in arrivo alla stazione di Cocullo, fermata straordinaria» gracchiò l’altoparlante del treno. La piccola folla si riversò sul binario della stazioncina e si incamminò verso il paese, distante poche centinaia di metri. Venanzio provò un piccolo brivido di emozione. Sperava che in tutto quel tempo il suo viso fosse cambiato a sufficienza per riuscire a perdersi tra i turisti, i curiosi, i fotografi, i giornalisti. C’era addirittura un pulmino con le parabole di un’emittente satellitare straniera. Da quando il mondo era stato ridotto alle dimensioni di uno schermo televisivo, Papua Nuova Guinea e Valle Peligna erano divise soltanto da un clic di telecomando.

La piazza era già gremita di gente, in attesa dell’uscita della statua di San Domenico. I serpari erano già nei pressi dell’ingresso della chiesa della Madonna delle Grazie e Venanzio lo riconobbe. Antonio era il più vecchio, il passare degli anni lo aveva reso un vecchio secco, dall’aria sofferente e spenta. Aveva perso tutta la spavalderia della gioventù, ma ancora capace di andare per campi e ripe alla ricerca delle serpi. Finalmente, preceduta dalle compagnie di pellegrini e dai canestri con i pani sacri, apparve la statua che i portatori abbassarono fino a terra per permettere ai serpari di adornarla con i rettili. Approfittando della ressa e della calca, Venanzio si portò alle spalle di Antonio, tirò fuori dallo zainetto il suo sacco di tela che rovesciò in testa al suo rivale. La vipera che Domenico, professore ordinario di erpetologia all’Università di Roma 2 gli aveva procurato, impazzita dalla confusione e dal trambusto, si avvinghiò al collo di Antonio e lo morse.

Domenico gli aveva detto che raramente il morso di una vipera è mortale, tranne per persone fisicamente debilitate e in caso di soccorsi tardivi. Venanzio si allontanò dalla folla dei serpari e si diresse fuori dal paese. Il treno per Roma sarebbe passato da lì a mezz’ora. Non si curò del vociare troppo concitato alle sue spalle, delle persone che si accalcavano per la processione. Aveva ancora il tempo di fare una visita, la più dolorosa, la più importante, la più tardiva, la più inutile.

Il piccolo cimitero di Cocullo assomigliava ad un giardino. Appena dopo il cancello dell’ingresso, sulla destra, si trovava la cappella della famiglia Di Nino. C’era una lapide ancora pulita, con le lettere in ottone ancora scintillanti. Ersilia lo guardava con i suoi occhi nerissimi, ingentiliti da piccole rughe lievi. Se ne era andata per sempre solo un mese prima, era riuscita a ritornare dal Belgio in tempo per godersi qualche anno di tranquillità e i suoi nipotini. «Perché non mi hai aspettato» mormorò Venanzio piangendo le lacrime che aveva tenuto in serbo per quaranta e più anni.

«Il Messaggero, per favore» chiese Venanzio all’edicolante dentro l’aeroporto di Fiumicino. Erano le cinque e trentacinque di venerdì mattina. Venanzio non ebbe bisogno di sfogliare il quotidiano fino all’edizione regionale. La notizia era in prima nazionale. “Tragedia alla secolare festa di Cocullo: anziano serparo muore per il morso di una vipera“.

Il volo Roma-Buenos Aires era appena stato annunciato. Venanzio, con passo lento e regolare, si avviò al gate 42.

2 risposte a "Fermata straordinaria"

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  1. … aiutoooo! e io che ho permesso a una serpe di avvinghiare il collo del mio amato! un sentore di nero in una festa emozionante e intensa! brava

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