22 ottobre – Oggi tocca, tra le altre migliaia di cose da fare e vedere, all’Empire State Building. Ci arriviamo relativamente presto e c’è già una fila da paura. I controlli sono paranoici – borse, giacche, cinture, scarpe passate al setaccio, manca solo la scannerizzazione tridimensionale degli orifizi corporali – e il tempo che si perde è tanto, ma questo è: prendere o lasciare. Prendiamo, ovviamente.
Intruppati in un sistema perfettamente organizzato per gestire migliaia di persone al giorno, passiamo attraverso un percorso obbligato che comprende, tra le altre cose, una sosta ineludibile davanti a un fondale – fintissimo – per una foto – fintissima – con lo sfondo di New York (non ne vedo la necessità visto che la faremo, dal vero, da lì a cinque minuti). Dopo di che si prende l’ascensore col soffitto di cristallo che sale dieci piani alla volta in un batter d’occhio. Sembra una scena di un film di fantascienza, come essere dentro una capsula sparata in un condotto buio bordato di lucine blu che scappano via a una velocità preoccupante. L’ultima operazione prima di arrivare al belvedere è la consegna dell’audioguida, disponibile in diverse lingue. Probabilmente ce l’abbiamo scritto in faccia che siamo italiani perché ci viene appioppata d’ufficio la narrazione in italiano. Italiano per modo di dire, perché in realtà è romanesco. Dopo venti giorni di full immersion di accento americano, appena ho avvicinato l’aggeggio all’orecchio mi sono schiantata dal ridere, lì in mezzo agli altri turisti. Ascoltare l’accento di Torpignattara a New York produce un effetto di dislocamento spaziale difficile da spiegare. La voce narrante è di una tale Antonella “ma me potete chiamà Toni” che è italiana di origine ma vive da così tanti anni a NY che “la amo come la mia scittà, Roma.” Avevamo qualche dubbio in merito alla sua provenienza? Toni dice di essere contenta “de racontavve quarcosa de ‘sta bbbella scittà” (aridaje con la “scittà“) e giù una serie di aneddoti personali di una noia sesquipedale di quando portava i figli piccoli a Central Park – sai che brivido lungo la schiena – oppure di quella volta che ha sferruzzato all’uncinetto una kippa di emergenza per un compagno di classe ebreo del figlio – adrenalina pura – e amenità simili. Roba che al confronto, Cuore di De Amicis è letteratura pulp. L’intento, credo, fosse quello di fornire un commento un po’ originale e non il solito asettico resoconto da guida turistica, ma il risultato è, per usare un eufemismo, una boiata pazzesca. Quando “Toni” mi informa che la città è formata da cinque “bbborozzz” (pronuncia romanesca di boroughs, cioè distretti, quartieri), non ce la faccio più ad ascoltare, i padiglioni auricolari si accartocciano su se stessi e si rifiutano di fare il loro mestiere. Cerco con lo sguardo G. che non capisce il mio sgomento, perché, da bravo maschio pratico ed essenziale, ha capito subito che la guida era un intralcio, l’ha abbandonata subito a penzolare inerte dal cinturino e di Toni non ha sentito nemmeno mezza parola. Ottima scelta. Spengo finalmente anch’io l’attrezzo e mi godo in silenzio – che meraviglia – il panorama che è un’esperienza da rimanere senza fiato, e non solo per la bora artica che soffia quassù, a quasi 400 metri da terra.
Un oceano pietrificato – è questa la prima impressione – coi cavalloni più alti, che quasi ci raggiungono, arrestati nel loro balzo tutto intorno a noi; e a perdita d’occhio, sino all’estremo orizzonte – ove cielo e città si confondono nello stesso squallore cinereo – un immane decrescere e appianarsi d’onde immobili.
(Pier Antonio Quarantotti Gambini, Neve a Manhattan, Fazi, 1998).
Se l’edificio in sé è un tripudio meraviglioso di Art Deco, 103 piani tirati su in poco più di un anno (quattordici mesi, per la precisione) in cui anche il dettaglio più infinitesimale è curato con precisione da artigiani, la vista dall’86° piano ripaga di tutte le file, di tutti gli inconvenienti, delle cazzate sparate da Toni e della vista degli orrendi e costosissimi gadget in vendita all’immancabile negozio di souvenir. Tra palle di vetro con la neve, addobbi natalizi, tazze, bicchierini, portachiavi, magliette, apribottiglie a forma di grattacielo e chi più ne ha più ne metta, risalta per originalità un barattolo di Gorilla Poop, (a “soli” $8,99) cioè semi di girasole ricoperti di cioccolato fondente. Non serve chiedersi che sapore abbia, il nome è una garanzia.
[fine decima parte]
Eh, li tempi cambieno. Na vorta ce steveno li ammericani aroma (Ammericano bbeve latte!), e mo… 🙂
Buone Feste!
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Ao’, ma ce lo sai che c’hai proppio raggione? 🙂
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Mbè, io ciò (quasi) sempre raggione!
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