16 ottobre – Un must-do di una vacanza a Bar Harbor è la crociera per l’avvistamento delle balene. Abbiamo conservato l’ultimo giorno per il whale watching, scelta dettata dal fatto che abbiamo privilegiato il trekking, attività principale, facendo conto che le previsioni meteo sono sì affidabili, ma è meglio stare on the safe side e decidere di giorno in giorno cosa fare. Infatti, più di una volta AccuWeather si è rivelato un’emerita AccuFregatura. Il giorno prescelto comincia con un nebiùn valpadano sull’Oceano che nemmeno a Campagna Lupia se ne vedono di uguali. Per sicurezza chiamo l’agenzia che organizza le mini-crociere, e una solerte impiegata mi assicura che l’uscita si farà ugualmente – come dubitarne, time is money – e, come ultima cosa, mi invita a vestire pesante perché farà very very very (tre volte) cold. E se lo dicono loro, che girano col cotone anche a dicembre, c’è da credergli. Allora la mia mise è composta da: intimo tecnico (calzamaglia e maglia a maniche lunghe, quella che si usa per sciare, per intenderci); pantaloni invernali, calzerotti da trekking e pedule a riporto; camicia di flanella, pile in Polartec 300, giacca in piumino con fillpower 650+ (di più c’è solo il potere riscaldante per andare sull’Everest), guscio impermeabile, fascia in pile, guanti in Goretex. Mi sentivo come Fantozzi che va in settimana bianca.

Questa zona doveva un tempo la sua ricchezza alla caccia alla balena; adesso, per fortuna dei cetacei, la deve a questa attività di voyeurismo naturalistico. Anche qui, sono inseguita da riferimenti letterari: Nantucket non è poi così lontana e l’atmosfera da Moby Dick c’è tutta, anche se il catamarano su cui ci imbarchiamo non porta il nome di Pequod, ma AtlantiCat, il capitano non si chiama Achab ma un più prosaico Bob (o Tom, Joe, chi se lo ricorda). C’è uno sfracello di gente, vestita nei modi più disparati, dalla signora in tuta da ginnastica con infradito ai piedi e poncho impermeabile sottilissimo fino al ragazzo con cerata modello baleniere nipponico – appunto – e stivali da pescatore ad altezza ginocchio. Ci sono anche due coppie di mezza età di Amish, gli uomini in gilet e camicia, con le barbette caprine e le donne con le cuffiette in testa e le gonnone in cotonina che si gonfiano al vento. Per un attimo al volto di uno degli uomini si sovrappone quello di Gregory Peck in Moby Dick: una sensazione estraniante, la devo smettere con queste allucinazioni cinematografiche, anche se è difficile, qui negli States sembra di vivere in un film. Il meteo nel frattempo è peggiorato, la nebbia si è spostata verso il largo ma il cielo è carichissimo di nuvole scure, e per completare il quadro, si stanno alzando anche raffiche di bora oceanica. Io e G. siamo seduti vicino alla plancia di comando e le due squinzie bionde sgallettate che ridacchiano come oche col capitano ricordano quella Domnica CeMortan(cci sua!) che tanta parte ha avuto nella recente vicenda della Costa Concordia. Il destino manda segnali inquietanti… ok, non facciamoci suggestionare. Però qualcosa mi dice che la giornata è partita col piede sbagliato.
Dopo un’ora di navigazione durante la quale la temperatura si abbassa di colpo tanto che mi sento vestita di voile e non come per andare al Polo, l’AtlantiCat giunge sul luogo previsto per l’avvistamento. La situazione è la seguente: freddo della madonna, pioggia gelata a raffiche e moto ondoso “lungo” che dipinge sul volto di molti gitanti, il mio compreso, un colorito assimilabile a quello di un “can che fugge” (cit.). Il catamarano è fermo, il mare in effetti non è molto agitato ma l’effetto che produce è devastante per lo stomaco, tanto che, per non sapere né leggere e né scrivere, afferro uno dei sic-sac (devo scoprire chi è il genio del marketing che inventato questo nome) a disposizione, dove c’è scritto una cosa del tipo “non abbiate riguardo ad usarlo, anche chi viaggia spesso può soffrire di mal di mare”. E che mi faccio riguardo io, che sono nata, cresciuta e pasciuta nella pianura più piatta dello Stivale, un essere umano più terricolo di una lucertola? Per fortuna non è stato necessario servirsene, è bastato tenerlo in mano per ottenere un effetto placebo immediato e soprattutto per far sparire in maniera veloce tutti quelli che avevo vicino.
Ma il punto è che di balene non se ne vede nemmeno l’ombra. Gira e gira, aspetta, spostati e muoviti, ma niente. L’AtlantiCat percorre involuzioni su se stesso in attesa di avvistare uno zampillo. Ma ancora niente di niente. Dopo un’ora abbondante di impasse, il commentatore comunica che si fa ritorno a Bar Harbor con le pive nel sacco. Il bottino fotografico ammonta a: un’isoletta con faro, un gabbiano e quattro foche. Nonostante il depliant dell’agenzia strombazzasse che il 95% delle uscite ha successo, c’è sempre qualcuno a cui tocca il restante 5%. La statistica è una scienza che mi sta un po’ sugli zebedei.
[fine quinta parte]
Avreste avuto maggiore probabilità di veder balene dal Burchiello!
ormai nel nostro piatto paesaggio padano spuntano dalla nebbia ciccione/i nutriti a Junk food quasi come nei dinner ammmericani!
Comunque la cosa buona e’ stata che non hai vomitato: sai la figura con quell’abbigliamento tecnico che ti identificava come una provetta frequentatrice delle baleniere artiche!!! Bacio
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Mannaggia Alessandra, mi hai bruciato la battuta sulle balene “umane” che avevo conservato gelosamente per i prossimi post! 🙂 🙂 🙂
Il mio abbigliamento era pittoresco (ma caldo), ma mai quanto quello degli Amish con i vestitini di cotonina sottili come un velo… brrrrrrr!
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Un po’ fantozziana, davvero, quest’avventura. Ma mi sa che le balene ormai si tengono lontane da tutto quel che appaia di origine umana, senza far distinzioni tra giapponesi e Greenpeace. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio!
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Molto fantozziana, direi!
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