La vera storia di zia Armida e il terremoto – di Gloria Spessotto

Ne “Una storia di disamore” delicato romanzo di Gloria Spessotto, incentrato sulla complessità dei rapporti umani in senso lato, la protagonista deve tenere testa a una terribile e invadente zia Armida. Tra i molti accadimenti narrati nel romanzo, è rievocato anche il terremoto di Ancona del 1972, argomento purtroppo sempre di attualità. La vicenda aveva subito alcune modifiche per adeguarla alle necessità della narrazione principale. Qui di seguito si vuole riportare la verità dei fatti, anche se poi chi lo sa dove sta la verità vera. E alla fin fine, ha davvero importanza?

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Sono convinta che l’esperienza del terremoto sia quanto di più devastante uno possa sperimentare. In un batter di ciglio risulta chiaro lampante il significato di sentirsi letteralmente mancare la terra sotto i piedi. Impossibile dimenticarlo. Io ricordo con un senso di acuto smarrimento il terremoto di Ancona del ‘72. Vi domanderete cosa c’entro io con Ancona. Ebbene, c’entro, c’entro eccome, perché proprio lì abitava zia Armida, come adesso vi racconterò.

Dire che zia Armida fosse un personaggio scomodo è dir davvero poco. Lei era scorbutica, scostante, fredda come un ghiacciolo, taccagna e per di più “capisciona”, secondo l’azzeccata definizione dialettale delle sue parti, una di quelle persone, cioè, che sanno tutto loro. Non potevi fare una qualsiasi cosa, sia pure lavare i piatti o cucinare il pollo al forno, che lei doveva subito dirti come e qualmente avevi sbagliato tutto e spiegarti che non c’era miglior metodo per affrontare la faccenda di come l’avrebbe sbrigata lei.

“No, Valentina – mi diceva – così non va bene, adesso ti dico io come devi fare”. Oppure: “Perché perdi tempo a leggere, piuttosto tira due uova di tagliatelle. I mariti si tengono per la gola”. E questa era davvero buffa perché zia Armida non si era mai sposata, e tutte le sue arti non erano state in grado di trattenere nemmeno uno dei suoi svariati spasimanti. Che pure c’erano stati, dato che da giovane era stata bellissima, solo che erano scappati tutti appena avevano verificato di che pasta era fatta. Il suo cruccio maggiore, però, non era tanto l’assenza di un marito, quanto la sventura di non aver avuto un figlio, e questo rimpianto potrebbe far pensare a un generoso impulso di amore materno. Invece no, il figlio le mancava perché almeno lui sarebbe stato costretto, così diceva suscitando la mia indignazione, a prendersi cura di lei accogliendola in casa con sé, risolvendo così tutti i suoi problemi. Perché ai tempi di cui sto parlando zia Armida era giunta alla soglia dei settant’anni, era sola come un cane e del tutto incapace di sopportare la solitudine.

Ma torniamo al dunque, al famoso terremoto di Ancona che fece ballare la città per un anno intero e a lungo la lasciò sfibrata e pericolante. La prima scossa, preceduta da un’esplosione come di grossa bomba, fu avvertita subito dopo le 21 del 25 gennaio. In quel momento, quando la casa oscillò e vibrò paurosamente e a lungo, come se all’improvviso avesse deciso di traslocare in altra zona, zia Armida si trovava al gabinetto e il sussulto la colse con le mutande calate. Per una come lei, formalista e perbenista al massimo, al panico irrefrenabile si aggiunse l’afflizione per essere stata colta in posizione decisamente sconveniente. “Sai che vergogna se i soccorritori mi avessero trovato morta in una situazione tanto disdicevole!” ripeteva con raccapriccio.

Al momento, comunque, rimase interdetta, non seppe cosa fare, e solo dopo qualche minuto come un automa si alzò le braghe dimenticando di pulirsi il sedere e piangendo di disperazione si catapultò giù dalle scale fino in strada dove trovò il conforto di tutti gli altri abitanti della via, ugualmente spaventati.

Quella notte la trascorse all’addiaccio, poi la bestia furiosa che si agitava sotto terra sembrò placarsi, lei si fece coraggio e rientrò in casa, come fecero un po’ tutti gli altri. Anche se le rimase una decisa resistenza ogni volta che doveva andare al bagno, che si tradusse in una feroce stitichezza renitente ai più svariati lassativi.

Zia Armida cercò di convincersi che tutto fosse finito con quel grande spavento e un certo disagio, sperò che con qualche purgante le cose sarebbero tornate alla normalità perché l’animo umano aspira sempre all’abitudine, molto più rassicurante dell’ignoto. Aveva appena ripreso la sua solita vita quando, pochi giorni dopo, avvenne una seconda scossa, più forte della prima. A quel punto la zia cominciò a dar segni di squilibrio. Perché tutta la sua rudezza e rigidità mentale in realtà nascondevano una segreta fragilità di fondo e un’incapacità fanciullesca a far fronte alle situazioni. In casa, dunque, come un bimbo che fa i capricci, non volle più rientrare, nonostante le rassicurazioni della protezione civile. Si rifugiò dapprima in un vagone ferroviario giù alla stazione, poi in un campeggio che le sembrava più decoroso. Trascorreva le giornate il più possibile all’aria aperta, lontana da ogni costruzione che avrebbe potuto crollarle addosso da un momento all’altro per una scossa improvvisa. Cominciò a imbottirsi di tranquillanti che le aumentavano la stitichezza, ma continuava ad avere i nervi a fior di pelle. Tremava, sudava freddo, le lacrime sempre sull’orlo delle ciglia. Fatto sta che, presi da compassione, la invitammo per un periodo a casa nostra per allontanarla da quella realtà che tanto la angosciava. A Padova in effetti, dove allora abitavamo, cominciò a mettersi un po’ più calma, a dormire qualche ora la notte, ad andare di corpo, a risfoderare i suoi aculei nei confronti del prossimo, noi per primi.

Avere una persona del genere per casa non era il massimo. Continuava a tormentarmi: “Valentina no, così non va bene, Valentina è sbagliato”, e io non vedevo l’ora che tornasse a casa sua. Il che avvenne dopo qualche settimana, anche perché nel frattempo le cose ad Ancona si erano messe più tranquille. C’era ancora in attività uno sciame sismico di assestamento, com’era chiamato, ma con scosse molto più blande per lo più rilevate solo dalle apparecchiature. Lei tornò dunque a casa con nostro grande sollievo e due giorni dopo arrivò uno scossone più forte di qualunque altro in passato, una botta potente, sempre preannunciata da un boato fragoroso, che raggiunse il decimo grado della scala Mercalli.

Ancona, 1972 © Il Resto del Carlino
Ancona, 1972 © Il Resto del Carlino

Al telefono, quando riuscimmo a raggiungerla, la sua voce sembrò provenire dall’oltretomba. Così tornò da noi. Pareva una mezza zombi, aveva ricominciato con la stitichezza, le purghe, i tranquillanti, ormai tremava come foglia al vento anche al passaggio di un camion. Ci volle del tempo per calmarla. Per farla breve la ospitammo diverse volte nel corso di quell’anno: lei scappava via spaventata dopo ogni scossa potente, mentre stava da noi il sisma si acquietava e lei tornava a casa credendo che finalmente il peggio fosse passato. In realtà ogni volta rientrava giusto in tempo per assistere alla violenta scossa successiva. I sussulti più pesanti se l’è beccati tutti.

Intanto i mesi passavano, trascorse un anno intero fra una convulsione e l’altra, poi poco per volta la febbre della terra si placò. Zia Armida rimase a lungo insonne e con i nervi tesi come corde di charango, quando cominciò ad essere afflitta da forti coliche epatiche. Le paure, mai del tutto domate, si moltiplicarono, la zia si riteneva colpita da un brutto male e non faceva che piangere.

“Lei ha solo dei calcoli alla cistifellea – le disse il medico – dovrebbe farsi operare”.

“Ma non lo dica neanche per scherzo!” fu il commento lapidario. Perché lei già si immaginava stesa incosciente sul lettino operatorio, mentre il chirurgo con in mano un coltellaccio da cucina era chino su di lei pronto a sventrarla, quando la terra cominciava a tremare e tutto intorno a crollare facendola morire sotto le macerie dissanguata e sbudellata.

Passò del tempo, le coliche si facevano sempre più feroci e frequenti ma lei restava ferma nel suo rifiuto. D’un tratto il viso si colorò di giallo. Non si poteva lasciarla in quelle condizioni senza intervenire, c’era il rischio che ci rimettesse la pelle, così le suggerimmo di farsi operare qui da noi: il posto era tranquillo, il presidio ospedaliero perfettamente affidabile. Lei accettò e fra un fiume di lacrime si fece ricoverare al sesto piano del policlinico nel reparto chirurgia, disposta al sacrificio.

L’intervento fu più complicato del previsto, la zia aveva lasciato passare troppo tempo e la parte si era infettata, la cistifellea necrotizzata, insomma la situazione non era per niente tranquilla e la prognosi non sarebbe stata sciolta prima di dieci giorni almeno. La sera dell’intervento, il chirurgo mi stava appunto illustrando i fatti al telefono quando la casa cominciò a vacillare, la linea si interruppe, mancò la luce: era il terremoto del Friuli del ’76 avvertito pesantemente anche nelle regioni limitrofe. Col cuore in gola ci precipitammo tutti in giardino a guardare il condominio con il terrore di vederlo crollare da un momento all’altro. Poi sapemmo che c’erano stati danni alla Basilica del Santo, erano caduti cornicioni e statue, e all’ospedale c’erano state scene da infarto con i pazienti che si levavano dai letti come miracolati, afferravano le flebo e si precipitavano giù dalle scale. Lei no, lei era collegata a vari drenaggi e non si poteva muovere ma si è vista morta: al sesto piano dove si trovava, poi, l’oscillazione era stata avvertita in modo davvero pauroso. Quando la raggiunsi fu impossibile consolarla. Non faceva che singhiozzare per lo spavento e il dolore, incapace di formulare sillaba.

Pur in mezzo al dramma, noi ci guardammo con un mezzo sorriso e un comune spontaneo silenzioso commento: “E’ stata lei, è riuscita portarsi dietro fino a qua perfino il terremoto”.

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