Una piuma di vaira

Il secondo intervento “esterno” su Verba Volant è collegato direttamente alla città di Trieste. Si tratta di un ricordo, vissuto in prima persona, del giorno in cui la città giuliana, dopo una serie di trattative tra i governi italiano, inglese, yugoslavo e statunitense, ritorna a far parte del territorio italiano. Cronista di quella giornata storica è Gloria Spessotto, che si presenta con queste parole.

Sono cresciuta in quell’estremo lembo di Veneto orientale a un passo dal Friuli dove Nievo ha ambientato la prima parte delle sue Confessioni e ho assorbito insieme al paesaggio, i colori e gli umori di quella terra. Un’affettuosa nostalgia mi ha accompagnato nei lunghi soggiorni nelle regioni meridionali, di cui ho molto amato, e amo, il calore della gente, i profumi intensi, le tinte accese e la vena un po’ selvaggia di luoghi e temperamenti. Da sempre appassionata della comunicazione fra persone, mi sono dedicata alle lingue, all’inglese in particolare, che ho praticato nel lavoro di albergatrice, di interprete, e soprattutto di insegnante. Attualmente sono impegnata in un progetto culturale all’interno di una struttura per il recupero dalle dipendenze, droga, disturbi alimentari, profondamente convinta che la cultura svolga un ruolo fondamentale nello sviluppo armonioso della personalità. Su questa esperienza ho scritto un libro con Sandro Travaglia, insieme al quale lavoro da anni: Ciò che gli angeli non sanno (Comunità di Camparta 1998). Ho pubblicato anche dei racconti, Cinque ciliegie di marzapane, Medusa 1994, e i romanzi Questa è la terra non ancora il cielo, Tufani 1998, con Gabriella Imperatori, Chi è colui che ti cammina a fianco, Mobydick 2005, con Sandro Travaglia, Una storia di disamore, Mobydick 2008 e Missing: Scomparso, Mobydick 2012, sempre con Sandro Travaglia.

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Per noi di Portogruaro, Trieste era una città misteriosa, affascinante e contraddittoria. Piuttosto vicina in quanto a chilometri, ma in fondo tanto lontana e anche se italiana nel cuore, senz’altro straniera. Per poterla raggiungere bisognava passare ben due posti di blocco, quello italiano e quello alleato, esibire i documenti, e lì non sapevi mai cosa ti poteva capitare, potevi anche essere arrestato, ci dicevano. Le leggende fiorivano abbondanti, elaborate dalla fantasia creativa di bambini e adolescenti. Arrivavano insieme alle stecche di sigarette di sottobanco, arricchite dalle letture di avventure oltre frontiera, popolate di spie e contrabbandi. E dalle canzoni disgraziate, come il malnato “tram de Opcina” ribaltatosi sventuratamente venendo giù da Barcola. Oltre il confine poteva accadere di tutto. Se è la prima volta che ci vai, ci dicevano gli adulti per incuterci timore e prenderci in giro, “te gà da basar el cul ala vecia”. Mio dio, e chi sarà mai questa vecchia col sedere scoperto sempre lì pronto a essere baciato da ogni pivello che raggiungeva Trieste per la prima volta? Bruttissima, a detta di tutti, sporca e vestita di stracci (non eravamo più bambini, ma eravamo ingenui e pronti a credere anche a storie del genere).

Ma quel giorno no, quel giorno c’erano ben altri baci da distribuire, baci di gioia e commozione  a sorridenti giovani in divisa venuti lì a testimoniare che quella non era più una città straniera, che il mistero in parte si poteva svelare. Era il 26 ottobre 1954 e avevo quattordici anni. Quel giorno Trieste ha mostrato al mondo tutta la sua scontrosa grazia: e più scontrosa di così non poteva essere, col diluvio che ci ha riversato addosso fin dal primo mattino, ma impareggiabile davvero era la grazia delle sue mule che accorrevano gioiose e quasi volando per le strade, si arrampicavano sui camion dei militari sventolando bandiere e coccarde tricolori. Con mia madre e mio fratello eravamo partiti in treno dal paese la mattina presto quando era ancora buio e avevamo trovato a fatica uno scompartimento semivuoto in coda al convoglio superaffollato, perché tantissima era la gente desiderosa di raggiungere Trieste. Noi non potevamo mancare, e quel martedì d’autunno mia madre aveva perfino accettato di farci saltare la scuola pur di partecipare insieme a noi a quell’evento storico. Un giovanotto coi capelli bruni scomposti alla Scamarcio è entrato trafelato nel nostro scompartimento chiamando a gran voce dal finestrino un paio di amici sul marciapiede: “Salite, salite, qua ci sono dei posti liberi. E ci sono delle venete coi fiocchi”.  In realtà sia io che mia madre eravamo tutte tricolori: io in gonna verde, camicia bianca, soprabito rosso, la mamma non ricordo bene, ma qualcosa di simile, e soprattutto in testa e intorno al collo nastri a fiocco dei colori della bandiera. I tre ragazzi venivano da Crevalcore doverosamente muniti di bandiera. Durante la sosta erano scesi alla nostra stazione per cercare un posto a sedere perché fin lì avevano viaggiato in piedi. Erano simpatici e soprattutto pieni di entusiasmo, hanno scherzato con mio fratello, corteggiato con garbo me e mia mamma che allora non aveva ancora quarant’anni ed era bella “come un’attrice del cinema”. Il viaggio è stato dunque molto divertente e con i nuovi amici ci siamo ripromessi di rimanere in contatto anche in seguito, ma appena scesi a Trieste, ci siamo persi di vista e mai più ritrovati.

All’arrivo siamo stati accolti dalla pioggia. Pioveva fin dalla prima mattina e la cosa un po’ ci ha disturbato, ma abbiamo deciso di far finta di niente, come del resto ha fatto la folla che gremiva le strade cantando e saltando di gioia, tutti senza ombrello. Intanto sfilavano lungo via Fabio Filzi e sul lungomare le camionette dell’82° fanteria, dei bersaglieri e dei carabinieri, mentre già gli F84 attraversavano il cielo cupo di nuvole. Si annunciava il prossimo arrivo in porto di tre caccia e tutti accorrevano in quella direzione. Intorno era una gran confusione, la gente premeva, spingeva, gridava: “cori, dai che i ‘riva”; “tasi, no se pol corer, ze massa gente”.

Trieste, Riva del Mandracchio, 26 ottobre 1954 © Saulo Bianco, collezione privata
Trieste, Riva del Mandracchio, 26 ottobre 1954 © Saulo Bianco, collezione privata

Ma comune era il palpito e l’emozione, come se una gigantesca creatura multiforme si muovesse disordinatamente verso le acque del mare respirando con grande rumore. A nessuno più interessava della pioggia che continuava imperterrita ad accompagnare la nostra grande festa. Mia mamma mi teneva per mano, temeva che mi staccassi e mi perdessi nella marea di gente, mi gridava cose che nel tumulto generale non riuscivo a capire, o non volevo capire. Perché io ero parte di quella bestia viva, ansimavo con lei, mi muovevo portata dalla sua corrente e non secondo le regole che si addicevano a quei tempi a una composta ragazzina educata in collegio dalle suore: con uno strattone deciso mi sono liberata dalla stretta della mamma, mi sono arrampicata su una jeep di passaggio e ho strappato decisa una piuma dal cappello di un avvenente bersagliere.

Ad un certo punto la folla si è come acquietata perché dal municipio parlava il Sindaco. Aveva la voce strozzata Gianni Bartoli, detto “Gianni lacrima” per la sua facilità a commuoversi ogni volta che parlava di patria. Anche questa volta la voce gli si ruppe e pianse, e con lui molti altri fra la folla avevano le lacrime agli occhi: lo stato di esaltazione e di giubilo era tale che si passava dal riso al pianto davvero senza accorgersene. Alla fine del discorso, nello strepito chiassoso dell’applauso irruppero le note di Mameli che imposero per un attimo un silenzio di colpo irreale, prima dell’esplosione in coro delle parole dell’inno cantate da tutti a gran voce. Parole che riempirono anche lo stacchetto per sola banda fra una strofa e l’altra intonando: “giuriam, giuriam, che Tito ze un rufian”.

Trieste, Piazza Unità d'Italia, 26 ottobre 1954 © Saulo Bianco, collezione privata
Trieste, Piazza Unità d’Italia, 26 ottobre 1954 © Saulo Bianco, collezione privata

Altri ricordi precisi di quel giorno non ne ho. So che poi siamo passati a casa di un’amica di mamma per asciugarci un poco e mangiare qualcosa prima di riprendere il treno del rientro. E’ lì che ci siamo accorte che il cappotto della mamma (nuovo fiammante, sfoggiato per l’occasione) sotto l’acqua si era ristretto e il rosso del mio cappottino di panno era scolorito e aveva tinto di macchie rossastre la camicetta bianca. Si sa, erano i tessuti di qualità scadente del primo dopoguerra, c’era da aspettarselo, eppure ci siamo rimaste male tutte e due. Come se al fondo ci fosse una specie di presagio: che la nostra patria quel giorno sfolgorantemente tricolore sarebbe presto scolorita, si sarebbe ristretta, ridimensionata…

18 risposte a "Una piuma di vaira"

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  1. E farvi i cazzi vostri e rimanere a casa, non era previsto? Lo sapete che grazie alla vostra trasferta, in seguito gli italiani ci hanno fatto una testa come una zucca che tutta la città era in strada perchè voleva l’Italia? E non era vero… alle ultime elezioni i partiti indipendentisti avevano fatto quasi pari e la città era piena di esuli istriani e di immigrati italiani, tutti rigorosamente patriottici. Già gli italiani avevano cacciato 40 mila dei nostri dopo il 1918, dopo la vostra gita non richiesta a Trieste, ne cacciarono altri 30 mila. Completata la pulizia etnica la nostra città è stata rovinata economicamente dall’italia. Anche grazie a voi.

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    1. Bravo Sandi, hai scritto proprio ciò che avrei scritto anch’io.

      Nel testo è scritto: “E dalle canzoni disgraziate, come il malnato “tram de Opcina” ribaltatosi sventuratamente venendo giù da Barcola” Un errore perdonabile, ma Barcola è la spiaggia di Trieste e non c’entra nulla col tram. Il tram scende Scorcola, non Barcola!

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  2. Anch’io ero a Trieste quel giorno. L’emozione di quel ricordo ancora oggi mi commuove e lo stesso entusiasmo e la stessa commozione ho rivissuto qualche anno più tardi quando a Trieste si tenne l’adunata degli Alpini.
    Ritornando a quel giorno però ricordo che quando salpò l’incrociatore inglese che riportava in Inghilterra il Governatore e gli ultimi funzionari inglesi, dalla terrazza del Palazzo del Governo in piazza dell’Unità un Ufficiale degli Alpini rivolse alla nave un gestaccio subito sottolineato da un vigoroso applauso da parte del pubblico. E improvvisamente spuntò il sole.

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    1. “dalla terrazza del Palazzo del Governo in piazza dell’Unità un Ufficiale degli Alpini rivolse alla nave un gestaccio subito sottolineato da un vigoroso applauso da parte del pubblico. E improvvisamente spuntò il sole”.
      Bellissimo gesto degno di un ufficiale degli alpini !

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  3. Questo ricordo, così ben scritto, tocca davvero il cuore e riesce a far commuovere un po’ anche qui quel tempo non lo ha vissuto.

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  4. Cossa xe “vaira”?
    Sono nata l’anno dopo quello del racconto, ma mi è sembrato di aver vissuto anch’io l’entusiasmo della gente. Forse eravamo tutti e sempre proiettati al ” futuro di prosperità “….

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  5. Racconto decisamente coinvolgente e sapientemente costruito nel susseguirsi di tre momenti ben collegati ma molto diversi per sensazioni provate e trasmesse dalla protagonista.
    Alla parte iniziale per lo più descrittiva, che apre il racconto dando l’avvio in sordina ai ricordi, fa da contrasto quella palpitante attraverso l’immagine della folla che si muove all’unisono e di cui la protagonista si sente parte viva e vibrante; l’epilogo, infine, chiude il racconto e la giornata con una nota di tristezza che unisce passato e presente richiamando nel lettore le ansie di un momento storico in cui non si riesce ad intravedere un futuro per l’Italia e gli Italiani.
    Brava!
    Marisa

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  6. …per ciò che mi riguarda, d’altro canto, io esigo da ogni scrittore, prima o poi, un semplice e sincero racconto della sua vita, e non soltanto quello che egli ha sentito dire sulla vita degli altri uomini, ma una narrazione sul tipo di quella che manderebbe ai suoi parenti, da un paese lontano…
    Henry D. Thoreau, Walden (La vita nei boschi)

    grazie

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